È tempo di (ri)fondare una nuova cittadinanza ecologica

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“Peace and Planet” ci racconta l’impegno delle organizzazioni e della società in generale a costruire e diffondere una nuova cittadinanza ecologica che miri ad un’alleanza tra ambiente e democrazia: la cura della terra è il presupposto per un mondo di pace. A Padova, il tema sarà discusso domani 23 ottobre nella prima sessione della conferenza annuale dell’International Peace Bureau.

Nell’ambito della conferenza annuale dell’International Peace Bureau, che comincia domani a Padova, una sessione dei lavori, intitolata significativamente “Peace and Planet”, sarà dedicata a una tavola rotonda in cui si discuterà del rapporto tra la pace e l’impegno in favore dell’ambiente.

La sessione prevede una tavola rotonda in cui le associazioni per la pace e il disarmo discutono l’impegno per la costruzione di una cultura di pace, ma soprattutto per la costruzione e il rispetto del diritto alla pace che passa attraverso una nuovo relazione con la terra che calpestiamo, con l’aria che respiriamo, con l’acqua che in varie forme beviamo. Il Manifesto Terra Viva (2015) promosso da Banca Etica dichiara fin dal sottotitolo “il nostro suolo, i nostri beni comuni, il nostro futuro, una nuova visione per una cittadinanza planetaria”.

La lettera enciclica di Papa Francesco Laudato si, scrive Carlo Petrini – presidente di Slow Food – nell’introduzione all’edizione San Paolo (2015), “ci chiede di partire dalle risorse, dalla terra, dall’acqua, dall’agricoltura e dal cibo, quindi da un afflato ecologico che però immediatamente comprende anche l’uomo e non può più tollerare le ingiustizie che perpetriamo, tanto alla natura quanto ai nostri fratelli e sorelle. Una nuova ecologia che parte da lontanissimo”, dalla convinzione che “tutto è in relazione, e che la cura autentica della nostra stessa vita e delle nostre relazioni con la natura è inseparabile dalla fraternità, dalla giustizia e dalla fedeltà nei confronti degli altri” (pp. 13-14).

Come fare? In Terra Viva ritorna più volte il concetto che “noi siamo il suolo” – non è un caso che il 2015 sia anche stato dichiarato dall’ONU, l’anno internazionale del suolo – e questo ci pone di fronte enormi responsabilità. Non è un caso se nuovi e violenti conflitti siano le conseguenze dirette ed evidenti dell’uso e trasformazione predatoria della terra: agricoltura, irrigazione, abitudini e consumi alimentari, ecc. sono tutti nodi di una rete complessa che si sta lacerando; basta un’osservazione sincera per rendersene conto.

Se guardiamo ai conflitti intrastatali che hanno caratterizzato gli ultimi sessant’anni, la miccia esplosiva è stata proprio l’accaparramento delle terre e delle “risorse” in essa contenute. Dove sono queste terre interessanti? Adagiate su grandi bacini idrografici, in particolare in Africa, ma anche in molte regioni dell’Asia e dell’America meridionale (e in Europa), queste terre reggono sistemi territoriali complessi, resilienti, ma vulnerabili. I conflitti che le attraversano sono volutamente raccontati in maniera semplificata, ridotta, come scontri etnici (ma chi avrà mai inventato questa idea dell’etnia?) o religiosi (ma di quali religioni stiamo parlando?).

La responsabilità nei confronti della terra, quella vicina e quella lontana, si fanno evidenti nel momento in cui si prendono decisioni che la riguardano. Tra queste decisioni rientrano i cosiddetti “investimenti agricoli” come pure quelli militari, che spesso vanno a braccetto: le armi inseguono gli interessi e i conflitti servono a preservarli, a proteggerli. Chi prende queste decisioni? Un oligopolio di multinazionali (i governi, il potere politico quindi, sono sempre più marginali rispetto ai magnate dell’economia e della finanza) decide. Una moltitudine invece si omologa dimessamente. C’è ancora spazio per la produzione di decisioni collettive? C’è ancora spazio per attivare circuiti (o cortocircuiti) di solidarietà tra persone, per costruire comunità? Risposta affermativa.

Beati costruttori di pace, Rete italiana per il disarmoBanca Etica, il Centro Diritti Umani dell’Università di Padova, il Coordinamento Nazionale enti Locali per la pace e i diritti umani, la Tavola della pace, il Tavolo della pace, Fondazione Fontana e World Social Agenda – presenti al tavolo Pace e Pianeta (“Peace and Planet”) credono che ci sia ancora spazio per la trasgressione “dal pensiero lineare e dalla logica estrattiva dello sfruttamento che porta al collasso ecologico e sociale” verso “il pensiero circolare della legge del ritorno, della reciprocità e della rigenerazione”, come affermato in Terra Viva.

È necessario stare dentro questo spazio per poterlo riprogettare, attraverso strumenti altri, modi di pensare e di agire differenti; perché non possiamo certo risolvere un problema utilizzando lo stesso sistema o paradigma che lo ha creato. É necessario quindi modificare il nostro modo di pensare perché è ciò che ha creato il mondo che oggi abitiamo. Disarmare, ad esempio, è parte di questo cambiamento, perché i fondi stanziati per le spese militari, oltre ad essere destinati alla difesa, alimentano i conflitti e sottraggono risorse vitali per altre spese come la lotta contro la povertà, lo sviluppo sostenibile e la “transizione verde”. Come abbiamo scritto su Unimondo, dobbiamo agire adesso visto che “l’eliminazione delle armi nucleari renderebbe disponibili enormi risorse che potrebbero essere usate per realizzare pienamente l’Agenda 2030 per uno Sviluppo Sostenibile.

La speranza ci invita a riconoscere che c’è sempre una via d’uscita, che possiamo sempre fare qualcosa per risolvere i problemi” – come afferma ancora il Papa. Prima di tutto però sarebbe opportuno riconoscere il bisogno che l’umanità ha di cambiare. “Manca la coscienza di un’origine comune, di una mutua appartenenza e di un futuro condiviso da tutti”. La sfida quindi non è tecnocratica, bensì “culturale, spirituale ed educativa”. Se la soluzione tecnica può prevedere tempi brevi di implementazione, quella educativa implica tempi molto lunghi perché informare, anche scientificamente o normare giuridicamente sono solo condizioni necessarie, ma non sufficienti per produrre un modo nuovo di relazionarci tra noi e con la “casa comune”.

Si tratterebbe di rifondare un insieme di comportamenti di “cittadinanza ecologica” (così la definisce il Papa) capace di attivare azioni di uso, trasformazione, cura della terra rispettose dei sistemi territoriali locali e globali. Un nuovo umanesimo mira quindi all’edificazione di una nuova geografia quale esito territoriale dell’agire sociale. Le geografie, scritture e riscritture della terra, sono incessanti lavorii di uomini e donne, i soggetti agenti e principali artefici dei capolavori come pure degli scempi. I territori sono scritture antropologiche, non (certo) teologiche. Uomini e donne sono chiamate a “coltivare e custodire il giardino del mondo” (Gen 2,15), cioè a lavorare e proteggere, preservare, curare la terra. Invito apparentemente contradditorio, perché spesso la conservazione implica una sorta di inazione dettata da vincoli (pensiamo ai vincoli presenti nelle aree protette che mirano a regolare e a ridurre l’azione antropica). Eppure prendersi cura significa usare la terra mantenendone la vocazione produttiva, trasformarla, ma in ottica di sostenibilità e non di esaurimento, ridurre i consumi, ma non annientarli; insomma, dar prova di creatività, generosità, apertura verso “una cultura della vita condivisa e del rispetto per quanto ci circonda”.

Nella logica e con lo spirito biblico, e non solo, che “meno è di più” è possibile rifondare una geografia dell’equità che porti ad una più attenta redistribuzione della ricchezza, intesa come opportunità e diritto alla pace e al futuro di tutte le persone che abitano il pianeta. Verificheremo da qui a quindici anni, se i cinque pilastri dell’Agenda 2030 – People, Planet, Peace, Prosperiy, Partnership – avranno retto all’urto del cambiamento o della conversione, a seconda delle preferenze. 

Sara Bin

(1976) vive in provincia di Treviso e lavora a Padova. É dottore di ricerca in geografia umana; ricercatrice e formatrice presso Fondazione Fontana onlus dove si occupa di progetti di educazione alla cittadinanza globale e di cooperazione internazionale; è docente a contratto di geografia politica ed economica; ha insegnato geografia culturale, geografia sociale e didattica della geografia. Collabora con l’Università degli Studi di Padova nell'ambito di progetti di educazione al paesaggio e di formazione degli insegnanti. Ha coordinato lo sviluppo e l'implementazione dell'Atlante on-line in collaborazione con il Ministero dell'Istruzione, del'Università e della Ricerca. Dal 2014 fa parte del gruppo di redattori e redattrici di Unimondo. Ha svolto attività didattica e formativa in varie sedi universitarie, scolastiche ed educative ed attività di consulenza nell’ambito della cooperazione allo sviluppo. Tra i suoi principali ambiti di ricerca e di interesse vi sono le migrazioni, la cittadinanza globale, i progetti di sviluppo nell’Africa sub-sahariana, lo sviluppo locale e la sovranità alimentare. Ha svolto numerose missioni di ricerca e studio in Africa, in particolare in Burkina Faso, Senegal, Mali, Niger e Kenya. E' membro dell'Associazione Italiana Insegnanti di Geografia e presidente della sezione veneta

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