Covid-19: se i popoli indigeni rischiano l’estinzione

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Foto: Unsplash.com

Già da inizio marzo molte comunità indigene dell’America Latina avevano cominciato a sbarrare gli accessi ai villaggi, alcune hanno scelto di dividersi in gruppi più piccoli e inoltrarsi più a fondo nelle foreste, chi aveva contatti con le città e i centri abitati ha tagliato i rapporti. Perché per i gruppi indigeni il Covid-19 potrebbe significare addirittura l’estinzione. Le malattie respiratorie – come quelle che si sviluppano dal virus dell'influenza – erano già da prima tra le principali cause di morte in molte comunità: vivendo perlopiù isolate, queste popolazioni hanno sviluppato pochissime difese immunitarie contro le malattie e le infezioni comuni che circolano nella popolazione generale. E come la storia ha dimostrato più volte, l'introduzione di un patogeno estraneo in queste comunità remote può essere devastante. In territorio brasiliano, alla minaccia della pandemia si aggiunge poi l’ostilità del governo Bolsonaro, da cui i gruppi indigeni (che costituiscono lo 0,5% della popolazione) nemmeno in questo periodo difficile si sono mai aspettati grande sostegno. Dopotutto il presidente non ha mai nascosto il proprio disprezzo verso di loro, così come la volontà di espropriare le terre indigene, di cui il 98% si trovano in Amazzonia. 

Secondo Survival International, organizzazione mondiale che si occupa di difendere i diritti dei popoli indigeni, ad essere particolarmente a rischio sono soprattutto i cosiddetti popoli “incontattati”, ovvero quei gruppi che non hanno nessun contatto con la popolazione maggioritaria. «Se le loro terre fossero protette adeguatamente dagli esterni, sarebbero relativamente al sicuro dalla pandemia da Covid19 – spiega Sarah Shenker, campaigner di Survival International –. Ma molti dei loro territori in questo momento sono invasi e saccheggiati dagli attori del traffico del legname, dell’estrazione mineraria e dell’agro-business, incoraggiati dal presidente Bolsonaro che ha praticamente dichiarato guerra ai popoli indigeni del Brasile. Dove ci sono degli invasori, il coronavirus potrebbe sterminare interi popoli. È una questione di vita o di morte». A questi si aggiunge un altro pericolo, forse il maggiore, costituito dai missionari della New Tribes Mission (o Ethnos360, come si sono ribattezzati negli Usa), uno dei gruppi missionari evangelici più grandi – ed estremisti – al mondo: hanno infatti deciso di portare avanti il loro progetto di evangelizzazione di tutte le tribù amazzoniche incontattate nonostante la pandemia. Anche qui il governo brasiliano ci ha messo lo zampino: basti pensare alla recente nomina, da parte di Bolsonaro, del missionario evangelico Ricardo Lopez Dias come nuovo capo del dipartimento per gli Indiani Incontattati del Funai, l’agenzia governativa agli affari indigeni, decisione che un gruppo di pubblici ministeri del Brasile sta cercando di far sospendere in quanto comporterebbe un reale «rischio di etnocidio e genocidio» per queste tribù.

Tra gli altri rischi sottolineati da Survival (che riguardano tutti i gruppi, non solo gli incontattati): i loro stili di vita comunitari, basati sulla condivisione, che potrebbero facilitare la diffusione del virus nelle comunità, così come la distanza geografica dagli ospedali (dove di solito vanno solo per trattare malattie importate dalle società non-indigene). «Il presidente Bolsonaro ha anche ridotto il servizio sanitario indigeno, che rivestirà un ruolo cruciale nei mesi a venire – spiega ancora Shenker – Questi tagli devono essere revocati immediatamente, e si deve garantire un servizio sanitario completo a tutti i popoli indigeni che ne hanno bisogno». 

E poi c’è l’impunità verso diverse attività illegali, come quelle dei grileiros, gli espropriatori di terre da dedicare a pascoli e ad attività di agrobusiness, così come i cercatori d’oro e i taglialegna e trafficanti di legname. Anzi la pandemia starebbe favorendo queste attività, dato che le agenzie brasiliane di protezione ambientale, come IBAMA (l’Istituto brasiliano dell'Ambiente e delle risorse naturali rinnovabili) e ICMBio (l’istituto per la conservazione della biodiversità), hanno per forza di cose ridotto la propria operatività in tutta l’Amazzonia. Secondo una recente stima pubblicata da Reuters, circa un terzo degli agenti sul campo di IBAMA non sarà sul campo in questo periodo perché ha più di 60 anni o ha condizioni mediche preesistenti e quindi a maggior rischio di contrarre il virus. Certo l’indebolimento del sistema brasiliano di ispezione e monitoraggio delle aree protette da parte del governo Bolsonaro non è una novità dell’ultim’ora: lo dimostra la diminuzione del numero di multe ambientali imposte da IBAMA nel 2019 (meno 34% rispetto al 2018), o il dato rilevato dall’INPE (Istituto nazionale brasiliano per la ricerca spaziale) e sottolineato da Amnesty International secondo cui «l’Amazzonia avrebbe perso 469 km2 di foresta nei primi due mesi del 2020, con un aumento del 71,2% rispetto allo stesso periodo del 2019».

E mentre il presidente paragonava il Covid-19 a una «piccola influenza», a domenica 5 aprile il Brasile aveva registrato oltre 11.000 casi confermati di coronavirus e 486 decessi. I contagi erano inizialmente concentrati nello stato di San Paolo, ma è solo questione di tempo. È di pochi giorni fa il primo caso di coronavirus riportato tra gli indigeni brasiliani: si tratta di un’operatrice sanitaria di 20 anni della tribù Kokama, entrata in contatto con un medico infetto nel distretto di Santo Antônio do Içá. 

Anna Toro

Laureata in filosofia e giornalista professionista dal 2008, divide attualmente le sue attività giornalistiche tra Unimondo (con cui collabora dal 2012) e la redazione di Osservatorio Iraq, dove si occupa di Afghanistan, Golfo, musica e Med Generation. In passato ha lavorato per diverse testate locali nella sua Sardegna, occupandosi di cronaca, con una pausa di un anno a Londra dove ha conseguito un diploma postlaurea, sempre in giornalismo. Nel 2010 si trasferisce definitivamente a Roma, città che adora, pur col suo caos e le sue contraddizioni. Proprio dalla Capitale trae la maggior parte degli spunti per i suoi articoli su Unimondo, principalmente su tematiche sociali, ambientali e di genere. 

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