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Sri Lanka: in cerca di un nuovo ordine
Carburanti
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Foto: Mariana Proença da Unsplash.com
E’ stata letta stamattina in parlamento la lettera con cui il Presidente Rajapaksa si è dimesso. E così si è concluso, già ieri, il pasticcio istituzionale delle dimissioni del presidente fuggito all’estero, di cui il portavoce del Parlamento Mahinda Yapa Abeywardena aveva confermato ieri mattina che la mail ricevuta giovedi da Singapore – a firma Gotabaya in calce alle sue dimissioni formali – era autentica e che dunque il Presidente aveva lasciato.
Intanto il Capo dello Stato ad interim – Ranil Wikremeshinghe – ha giurato davanti al Presidente della Corte suprema Jayantha Jayasuriya. Nei prossimi giorni, mentre la piazza si è calmata e ha lasciato i palazzi occupati (in una sorta di rivoluzione estremamente pacifica e che fortunatamente non conta nessuna vittima) si dovrà pensare al futuro e a come superare l’impasse. I giochi sono già cominciati ma non promettono grandi novità accettabili dai dimostranti. Il nuovo Presidente dovrebbe essere eletto a breve, il prossimo mercoledi 20 luglio e il partito dei Rajapaksa (Slpp) si è già fatto avanti. Con un messaggio controverso.
Del partito si è proposto l’ex ministro delle comunicazioni Dullas Alahapperuma, già tesoriere del Sri Lanka Podujana Peramuna. Ma lo Slpp ha espresso anche un apprezzamento per Wikremesinghe, uno tra i pochi personaggi di cui si possano fidare le istituzioni finanziare internazionali, quelle con cui il Paese stava negoziando un salvataggio da almeno tre miliardi di dollari di immediata liquidità. Nemmeno Ranil però gode esattamente della fiducia della piazza che voleva le sue dimissioni da Premier e che ha occupato la sua residenza e i suoi uffici per diversi giorni. Paradossalmente il Slpp, partito di maggioranza in parlamento e dunque con buone chance di avere un suo Presidente, appoggia sia Dullas (organico al partito) sia Wikremeshinghe che appartiene invece all’United National Party. Dullas e Ranil non sono comunque gli unici a essersi proposti...
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Nel 1948 Ceylon – come un tempo era chiamato lo Sri Lanka – ottiene la piena indipendenza della Gran Bretagna che ha lasciato in eredità grandi piantagioni di tè e caffè nelle quali, com’era sua abitudine, aveva importato manodopera tamil dall’India. Ma il problema coi Tamil è un altro. Una vasta comunità vive da secoli nel Nordest del Paese senza che le venga riconosciuto uno status di eguaglianza con i singalesi, maggioranza delle popolazione. Benché il premier Solomon Bandaranaike sia di idee socialiste è un fervente nazionalista singalese e la causa tamil non fa passi avanti. Viene ucciso nel 1959 da un monaco e sostituito da su moglie Sirimavo, che continua le politiche socialiste e porta alla proclamazione della Repubblica nel 1972, ripudiando lo status di dominion. Ma la primogenitura della religione buddista e l’imposizione della lingua singalese alimentano il risentimento tamil che porta alla formazione nel 1976 delle Tigri della Liberazione dell’Eelam Tamil (LTTE), un gruppo che sceglie la secessione e la lotta armata.
Agli inizi degli anni Ottanta la guerra civile si intensifica e a poco serve un intervento dell’esercito indiano che nel 1990 si ritira mentre migliaia di musulmani vengono espulsi dalle aree settentrionali sotto controllo del LTTE che nel 1991 si macchia dell’assassinio del premier indiano Rajiv Gandhi e nel 1993 dell’omicidio del presidente Premadasa. Tra il 1995 e il 2001 la guerra infuria nel Nord e nell’Est. Nel 2002 governo e i ribelli delle Tigri tamil firmano un cessate il fuoco mediato dalla Norvegia ma nel 2003 gli scontri ricominciano. Nel 2005 il premier Mahinda Rajapaksa vince le presidenziali e promette di chiudere la partita. Coi Tamil è ancora guerra e le mediazioni falliscono. Nel maggio del 2009, dopo un bagno di sangue, il governo dichiara sconfitte le Tigri e il loro leader Velupillai Prabhakaran viene ucciso. La guerra ha ricoperto il Nord di tombe, la terra viene redistribuita a militari singalesi, la questione tamil è tutto fuorché risolta.
Nel 2010 Mahinda Rajapaksa viene rieletto e il parlamento approva una modifica costituzionale che gli consente di ottenere un numero illimitato di mandati. Nel 2012 l’Onu esorta lo Sri Lanka a indagare sui crimini di guerra presumibilmente commessi durante la fase finale del conflitto con le Tigri ma Colombo non si muove. Nel 2015 Maithripala Sirisena sconfigge alle presidenziali Mahinda Rajapaksa, che tenta un golpe che fallisce. Nel 2016 Colombo riconosce per la prima volta che circa 65.000 persone sono scomparse. Nel 2018, durante una crisi costituzionale, il presidente Sirisena sostituisce paradossalmente il primo ministro Ranil Wickramasinghe con l’ex nemico Mahinda Rajapaksa e sospende il parlamento. Nell’aprile del 2019 attentati suicidi attaccano chiese e hotel la domenica di Pasqua, uccidendo più di 350 persone.
Intanto i Rajapaksa si sono nuovamente insediati al potere: Gotabaya Rajapaksa, il fratello minore dell’ex presidente Mahinda, vince le elezioni presidenziali e nel 2020 il Sri Lanka People’s Front dei Rajapaksa ottiene una larga maggioranza alle elezioni parlamentari. Mahinda torna al governo come premier e riempie l’esecutivo di parenti. Le cosa vanno ancora bene ma la parabola discendente inizia col Covid 19. Il turismo crolla e i debiti che i Rajapaksa hanno fatto soprattutto con la Cina vengono al pettine. La crisi energetica e l’aumento del prezzo del petrolio fanno il resto. La promessa di sviluppo, che per un decennio dopo la guerra ha funzionato, mostra la corda. L’economia srilankese dipende dalle importazioni di energia, fertilizzanti e medicine. Tra il 2021 e il 2022 la crisi si inasprisce fino al default dichiarato nella prima metà di quest’anno , quando Colombo non ha più valuta nemmeno per pagare il servizio del debito tanto meno per pagare le importazioni di cibo, gasolio, fosfati. Va in crisi anche il tessile e la protesta monta. I Rajapaksa tentano di restare aggrappati al potere ma la furia popolare li costringe alle dimissioni: prima Mahinda e i suoi ministri di famiglia. Ora la resa dei conti è con Gotabaya, in fuga dalla residenza presidenziale. Ex eroe della guerra cacciato come un ladro dalla protesta popolare.