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Carbon tax e ETS, possono stare insieme?
Carburanti
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Foto: Unsplash.com
Nel 2018 l’economista William Nordhaus è stato insignito del Premio Nobel per aver introdotto i sistemi di valutazione integrata (Integrated Assessment Models), vale a dire modelli matematici semplificati della realtà che convergono la conoscenza di più settori disciplinari in un unico schema descrittivo, come succede per esempio quando l’economia accoglie le scienze del clima. Di conseguenza, quando si vogliono raccontare i fenomeni economici (le interazioni tra capitale, lavoro, produzione e via dicendo) non lo si può fare prescindendo dagli effetti climatici delle emissioni di gas a effetto serra che il sistema economico genera, e di come, di riflesso, queste emissioni condizionano la produzione stessa. Questo circolo vizioso del carbonio è stato chiamato dagli economisti esternalità del sistema produttivo, concetto che fino a poco tempo fa trovava una collocazione marginale nei libri accademici, ma che in realtà ha acquisito notevole rilevanza negli ultimi anni, perche onnipresenti nella quotidianità dei flussi economici. A rigor di logica e al fine di contenere gli effetti devastanti delle emissioni in eccesso, causa principale del cambiamento climatico, queste esternalità devono essere quantificate nei modelli previsionali economici. Come? Gli si deve associare un costo monetario, da inserire nel sistema economico mediante uno strumento adeguato, che in sostanza “prezzi” il carbonio nella vita reale.
Il percorso dell’atomo di carbonio, già abilmente illustrato in uno splendido racconto di Primo Levi, ci illustra come parte di tali emissioni, in eccesso, generate dall’uomo permangono in atmosfera, e tornano sulla Terra con impatti rilevanti, alcuni più evidenti come la perdita di terreni per l’innalzamento dei mari, altri più complessi da decifrare e prevedere come gli spostamenti migratori dovuti al fatto che alcune terre diventeranno troppo aride per l’agricoltura. La funzione di danno delle esternalità negative prodotte dall’attività umana è stata quindi al centro del dibattito e della ricerca di tanti economisti, i quali associano l’aumento delle temperature alla perdita di PIL. Più grande sarà l’aumento della temperatura terrestre rispetto al periodo pre-industriale, più ingenti saranno le perdite (il danno) subite dall’economia, in termini di PIL. Inoltre, la relazione danno-temperatura potrebbe avere caratteristiche di non linearità (quindi danni esponenzialmente sempre maggiori) e potrebbe inglobare eventuali punti di non ritorno, cioè livelli di incremento della temperatura oltre i quali il sistema economico letteralmente collassa.
Tutto ciò è ancor più vero se si considera che nel mondo esiste una temperatura ottimale per svolgere le attività economiche: secondo lo studio di Marshall Burke in linea teorica più ci allontaniamo da una temperatura ottimale media di 13 gradi centigradi più registreremo diminuzioni nella crescita del PIL (su scala non-lineare). Dunque, di fronte a un aumento di un grado di temperatura, un paese dell’Africa Subsahariana, già localizzato in un’area sub-ottimale, sarà condizionato ancor più negativamente rispetto alla California per esempio.
Tutte queste considerazioni per ribadire che il cambiamento climatico, e quindi le emissioni di gas serra provocate dall’uomo determinano il cosiddetto costo sociale dell’inquinamento da carbonio (Social Cost of Carbon), vale a dire l’impatto monetizzato di un’unità di emissione marginale di gas serra su tutti gli attori coinvolti nel ciclo del carbonio. Un valore che dovremo fissarci bene in testa. Gli studi più recenti lo stimano dentro un intervallo che va da circa $ 54 fino a $ 417 per tonnellata di CO2, a seconda del tasso di sconto futuro utilizzato e di come vengono aggregati gli effetti dei singoli paesi. Tuttavia questi valori potrebbero essere ampiamente sottostimati. L’amministrazione Trump, per ridurre il costo sociale finale, oltre a ricorrere ad un tasso di sconto più alto, ha considerato gli effetti delle emissioni USA solo sul proprio paese, quando è risaputo che l’immissione di CO2 in atmosfera crea danni correlati a tutto il pianeta.
Ma come imporre questo costo alla società? Siccome le esternalità negative causano divergenze tra i costi sociali (maggiori) e i costi privati di chi inquina (pressochè nulli), un sistema impositivo che riequilibri questa asimmetria sarebbe auspicabile. L’opinione pubblica progressista sembra avere le idee chiarissime: carbon tax. Senza sapere, ahimè, che in Europa è già stato adottato un meccanismo di riduzione delle emissioni chiamato Sistema di Trading delle Emissioni (Emission Trading Scheme), approvato nel protocollo di Kyoto, anche se attualmente non coinvolge tutti i settori produttivi. L’ETS prevede un limite di emissioni per settore industriale attraverso la distribuzione di permessi specifici, una sorta di tetto massimo che non puoi oltrepassare. Le aziende che non rispettano tali limiti potranno “comprare” emissioni dalle imprese virtuose a un prezzo che riflette il costo marginale delle emissioni, in uno schema efficiente e giusto. Se da un lato l’introduzione di una carbon tax che colpisce le aziende inquinanti comporterebbe la certezza del prezzo da pagare sul carbonio, l’ETS ha il vantaggio di fissare le emissioni massime autorizzate, un dato su cui potremo fare affidamento. Infine, da entrambi gli strumenti si ottengono così ricavi pubblici, che le amministrazioni possono utilizzare per mitigare le eventuali distorsioni, compensando i gruppi sociali più colpiti, le imprese più esposte, e così via.
Ciò che emerge in modo evidente è che le manipolazioni politiche a volte abbagliano il cittadino sul ventaglio di soluzioni possibili. Metodi per prezzare il carbonio ne esistono vari, così come la possibilità di complementarli con sussidi ai sistemi di produzione carbon-free; in Europa forse converrebbe estendere il raggio d’azione dell’ETS a tutti i settori, invece di aggiungere deliberatamente una nuova tassa, che potrebbe essere malinterpretata dalla popolazione. Certo è che le aspettative ricondotte all’adozione di una carbon tax sono decisamente pompate, manco avessimo scoperto una miniera d’oro nel Klondike, o un pozzo petrolifero in pieno deserto. La tassa sul carbonio è tornata in auge anche perché sarebbe tra le tasse pigouviane (da Arthur Pigou) messe sul tavolo dalla Commissione Europea come copertura delle emissioni di eurobond alla base del Next Generation EU o piano per la ripresa dell’Europa. Che sia più un primo esperimento di conferimento di potere fiscale all’UE, che un’efficace misura di diminuzione dei danni del cambiamento climatico sarà difficile enuclearlo. Rimane, comunque, la difficoltà di una tassa che per essere varata avrà bisogno di unanimità di voto degli stati membri.
Marco Grisenti

Laureato in Economia e Analisi Finanziaria, dal 2014 lavoro nel settore della finanza sostenibile con un occhio di riguardo per l'America Latina, che mi ha accolto per tanti anni. Ho collaborato con ONG attive nella microfinanza e nell’imprenditorialità sociale, ho spaziato in vari ruoli all'interno di società di consulenza e banche etiche, fino ad approdare a fondi d'investimento specializzati nell’impact investing. In una costante ricerca di risposte e soluzioni ai tanti problemi che affliggono il Sud del mondo, e non solo. Il viaggio - il partire senza sapere quando si torna, e verso quale nuova "casa" - è stato il fedele complice di anni tanto spensierati quanto impegnati, che mi hanno permesso di abbattere barriere fuori e dentro di me, assaporare panorami, odori e melodie di luoghi altrimenti ancora lontani, appagare una curiositá senza fine. Credo in un mondo più sano, equilibrato ed inclusivo, dove si possa valorizzare il diverso. Per Unimondo cerco di trasmettere, senza filtri, la veritá e la sensibilità che incontro e assimilo sul mio sentiero.