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"Accuso le compagnie petrolifere di praticare un genocidio contro gli ogoni"
Carburanti
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A vent’anni dall’uccisione dell’intellettuale e attivista Ken Saro-Wiwa, che si era battuto contro lo strapotere delle compagnie petrolifere nel delta del Niger, il governo nigeriano ha confiscato un’opera d’arte in forma di bus a lui dedicata, creando i presupposti per nuove proteste.
“Oggi sarà un giorno di silenzio e celebrazione, da domani vedremo cosa fare”. Fyneface Dumnamene Fyneface mescola l’indignazione con il rispetto e, mentre parla, i rumori di Port Harcourt si rincorrono sullo sfondo. A sciogliere la lingua di questo giovane attivista nigeriano è un autobus che non cammina e che, in questi giorni, avrebbe dovuto essere in una piazza di Bori, città natale di Ken Saro-Wiwa, per ricordarne l’impiccagione. Da due mesi è invece bloccato in uno dei giganteschi terminal del porto della capitale Lagos, quello gestito dall’italiana Grimaldi. In una Nigeria squassata da antiche ribellioni, da fratture etniche - fra cui si insinuano fiumi di petrolio - corrotta quanto vitale, la confisca di un opera d’arte in forma di bus è diventata un caso nazionale. Che rischia di trascinare migliaia di persone in strada, mettendo qualche bastone fra le ruote delle compagnie petrolifere, e facendo ulteriore pubblicità alla lotta degli Ogoni, il popolo di Saro-Wiwa, contro i giganti del greggio.
The Bus, memoriale vivente. Il progetto del “Living Memorial”, il memoriale vivente a Saro-Wiwa, era nato nel 2005 dall’incontro fra l’artista anglo-nigeriano Sokari Douglas Camp e Platform-London, gruppo artistico londinese che promuove opere “militanti”, in grado di innescare cambiamenti collettivi. “The Bus”, questo il nome originale della scultura in metallo, riproduce a grandezza naturale un autobus stilizzato, sui cui lati è inciso il celebre j’accuse dell’attivista contro Shell e colleghi, “accuso le compagnie petrolifere di praticare un genocidio contro gli ogoni”. L’opera onorava Ken Saro-Wiwa a dieci anni dall’esecuzione voluta dalla giunta militare di allora, spaventata dal successo delle mobilitazioni di massa della minoranza ogoni contro la Shell. Dopo aver girato il Regno Unito, per i vent’anni da quel 10 novembre 1995 artisti e Mosop (il Movimento per la Sopravvivenza del Popolo Ogoni, co-fondato da Saro-Wiwa) avevano deciso di insediarla, in modo permanente, nella città di Bori.
Lotta non-violenta. “Portare qui ‘The bus’ era un modo simbolico di riportare a casa Saro-Wiwa e gli otto attivisti ogoni uccisi con lui”, spiega Dumnamene Fyneface, “e così risvegliare le loro battaglie contro la distruzione dell’ambiente per mano della Shell e del governo, che continua anche a distanza di decenni”. Project officer per i problemi climatici nella Ong nigeriana Social Action, Fyneface si occupa di campagne per i diritti umani nella regione di Rivers State, in cui vive buona parte degli Ogoni, e partecipa a Red+, un progetto pilota dell’Onu contro la deforestazione. “Saro-Wiwa”, racconta con oroglio, “era un ogoni come me, e mi ha mostrato una strada: quella della lotta non-violenta, una lotta che porterà alla vittoria, perché la penna è più potente della spada”. Certo, continua, “battersi per la giustizia in Nigeria può essere pericoloso anche oggi, perché il rispetto per i diritti umani è precario e si rischia di essere bollati come traditori dal governo centrale, ma sento di avere con me tutti gli Ogoni, non sono solo”.
Il bus fermo alla dogana. Imbarcata in Inghilterra a metà agosto, la scultura arriva a Lagos lo scorso 8 settembre. Da allora scompare. Attivisti e giornalisti chiedono di vederla senza successo. Per Fyneface e molti altri, dietro questo “sequestro d’arte” c’è Ibraheem Hameed Ali, nominato a capo dell’Autorità nazionale per le dogane subito dopo la partenza del container. “Hameed Ali è un colonnello in pensione”, dice Fyneface, “ed era uno dei membri del tribunale militare che ha condannato a morte Saro-Wiwa e i suoi compagni nel ‘95... Con questo gesto, li ha uccisi di nuovo”. La nomina dell’ex-militare da parte del presidente Buhari, che all’epoca era Consigliere per gli affari petroliferi del regime, parrebbe in effetti contraddire sul piano simbolico la promessa, ripetuta dal presidente nigeriano, di risanare finalmente il territorio del Delta del Niger abitato dagli Ogoni e danneggiato da continui sversamenti di petrolio.
Proteste all’orizzonte. Fyneface spiega che “un gruppo di organizzazioni ambientaliste e di artisti ha chiesto l’immediata liberazione del bus, ponendo un ultimatum di cinque giorni al governo, scaduto la sera del 9 novembre”. Se il 10, anniversario dell’uccisione di Saro-Wiwa, è un giorno di raccoglimento e silenzio per tutta la comunità ogoni, “nei giorni successivi, con il bus ancora confiscato, potranno esserci potreste pacifiche di massa, con il blocco di strade e di attività economiche legate al petrolio, fino a quando non riavremo l’opera”. Amnesty International, che aveva dichiarato Ken Saro-Wiwa prigioniero di coscienza, mobilitandosi in tutto il mondo per la sua liberazione, ha pubblicato a inizio novembre un report in cui denuncia le inottemperanze della Shell che, pur sostenendo di aver rimediato agli enormi danni ambientali causati dalle perdite di greggio, non ha in realtà agito, coperta dal governo. Motivi per protestare, in una terra devastata, ce ne sono dunque parecchi.
Il boomerang del sequestro. La piattaforma di cemento su cui sarebbe dovuto salire “The bus” potrebbe insomma essere riempita da omologhi dell’attivista ucciso vent’anni fa, stanchi di promesse non mantenute. In ultimo quelle di Buhari, che “ha detto di voler ripulire il Delta del Niger in tempi rapidi senza però agire, tanto che”, prosegue con solennità Fyneface, “a 25 anni dall’inizio della battaglia degli Ogoni, a 22 anni dalla chiusura dei pozzi della Shell nel nostro territorio, su pressione popolare, a 20 anni dall’uccisione di Ken Saro-Wiwa e degli altri otto attivisti e a 4 anni dalla pubblicazione di un rapporto delle Nazioni Unite che chiedeva azioni forti, gli ogoni continuano a vivere in un ambiente malsano, senza poter beneficiare minimamente degli introiti del petrolio che attraversa il territorio”. Il sequestro del bus potrebbe così rivelarsi un’arma a doppio taglio, e puntare molti più occhi su una regione scomoda, sacrificata sull’altare del profitto da multinazionali e governi corrotti, collusi o complici.
Giacomo Zandonini

Giacomo Zandonini. Classe 1981, ha vissuto a Milano, Trento, Bologna, Roma. Operatore sociale e culturale, è giornalista e videoreporter freelance dal 2004. Si occupa soprattutto di migrazioni, diritto d'asilo, politica estera e geopolitica del Sahel e del Nord Africa. Cerca di sottrarre all'oblìo e al rumore mediatico storie minori, capaci di gettare luce sul mondo che ci circonda. Indaga con determinazione su cause e motivazioni personali, dietro alle notizie. Ha studiato scienze politiche e lingue straniere.