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I rifugiati per i cambiamenti climatici: una realtà a breve?
Cambiamento climatico
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Vi dice nulla l’espressione “environmental migrant”?
Probabilmente no perché poco se ne parla, a dispetto del fatto che i “migranti ambientali” stiano oggi diventando una realtà concreta, e sempre più numerosa. È datato al giugno scorso l’ultimo studio pubblicato dall’Organizzazione delle Nazioni Unite andato a rinfocolare il dibattito sulle persone costrette a lasciare i territori di nascita o di elezione perché resi invivibili dalle conseguenze dei cambiamenti climatici. E i numeri di questi “eco-migranti” sono in costante crescita, in corrispondenza dell’intensificazione delle catastrofi ambientali che hanno colpito la terra. Un elemento che dimostra la correlazione fra cambiamenti climatici e migrazioni forzate. E se un terremoto come quello di Haiti del gennaio 2010 o lo tsunami del 2004 nel Sudest asiatico hanno devastato ampi territori provocando morti e danni altissimi, è vero che anche eventi climatici meno immediati, come ad esempio la desertificazione o la perdita di produttività del suolo, inducono le persone ad abbandonare le loro case in assenza di quelle condizioni di base che rendono il territorio vivibile.
Dinanzi a questo processo di degrado crescente, in attesa che i governi del mondo inizino realmente ad attuare delle politiche ambientali più sane e sostenibili, ci si sta interrogando a livello internazionale sulle pratiche da realizzare per salvaguardare l’esistenza e la dignità degli eco-migranti. Perché non concedere allora lo status di rifugiato a chi abbandona il proprio Paese per ragioni ambientali, nel caso in cui si riconosca che è divenuto impossibile viverci? Al pari, perché non ideare formule di accoglienza o assistenza per tutte quelle persone che fuggono dinanzi a un’emergenza ambientale rifugiandosi in un Paese confinante? Anche la condizione dell’eco-profugo appare dunque ipotizzabile.
Tuttavia ad oggi il documento legale che definisce chi è un rifugiato e quali sono gli obblighi dei governi nei suoi riguardi resta la Convenzione internazionale sullo status di rifugiato stipulata nel 1951. Al suo primo articolo la Convenzione sancisce che un rifugiato è colui che è fuggito dal suo Paese “per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche”. Tutte cause corrette tanto all’indomani delle seconda guerra mondiale quanto nel terzo millennio ma che tuttavia necessitano di alcune integrazioni dato che nei decenni si sono modificate le dinamiche di spostamento dei migranti. Se alle nuove dinamiche dovrebbero corrispondere altrettanto nuove strategie che tengano conto della crescita della popolazione, dell’urbanizzazione, dell’insicurezza alimentare ed energetica, della scarsità di acqua e del cambiamento climatico è presto detto, molto più difficile è far seguire ai discorsi la pratica di aggiornamento e di integrazione della normativa internazionale esistente in materia.
Il caso di Ioane Teitiota risulta per questa ragione particolarmente interessante. Cittadino dello Stato insulare di Kiribati (nel sud-est dell’Oceano Pacifico), Ioane “ha rischiato” infatti di passare alla storia come il primo rifugiato “climatico” dell’umanità presentando una regolare richiesta alla Nuova Zelanda dove si era trasferito e aveva fatto nascere i suoi bambini. Nonostante gli esperti ONU concordino sul destino a cui entro la fine del secolo andranno incontro gli atolli paradisiaci che costituiscono il Kiribati, inghiottiti dalle acque per effetto del riscaldamento globale e dell’innalzamento delle acque marine, e mettano sin dai prossimi anni in guardia sulle crescenti difficoltà di abitare sul territorio e sostentarsi coi suoi prodotti, la Nuova Zelanda ha negato la concessione dello status a Ioane. La pretestuosità della richiesta e l’assenza di una minaccia diretta alla sua vita, indicate quali le ragioni della sentenza, si sono sicuramente unite al rischio di creare un precedente giuridico in materia. Timore fondato dato che il governo del Kiribati starebbe pensando di creare un’assicurazione sulla vita dei suoi connazionali acquistando buona parte dei terreni dell'isola di Vanua, nelle Fiji, e pianificando un trasferimento in massa della popolazione del suo Paese. Di certo, dinanzi a soluzioni alternative che venissero dall’intera comunità internazionale, Kiribati come altri piccoli arcipelaghi composti da atolli non individuerebbero soluzioni al problema della loro esistenza solo in questi piani piuttosto fantascientifici.
È dall’Europa che dall’ottobre 2012 è arrivato un approccio di mediazione al problema. Nel contesto del cambiamento climatico e nella consapevolezza che ogni anno sono milioni le persone sfollate a seguito di inondazioni, tempeste, terremoti, siccità e altre calamità naturali, i governi della Svizzera e della Norvegia hanno avviato l’iniziativa Nansen, un processo di consultazione a livello regionale che consenta di costruire una rete di consenso sullo sviluppo di un programma di protezione dei profughi anche nei casi legati al cambiamento climatico. Si tratta di uno strumento di coinvolgimento di governi, organizzazioni internazionali, ong, società civile, gruppi di riflessione e altri attori chiave che lavorano su questioni legate allo spostamento e ai rischi naturali per affrontare poi, con maggiore consapevolezza del problema, coesione e con soluzioni praticabili alla mano, la consultazione globale prevista per il 2015 sulla protezione degli spostamenti transfrontalieri nell’ambito dei rischi naturali e del cambiamento climatico.
E mentre ci si confronta, risuonano in testa ancora le parole pronunciate dal Segretario Generale dell’ONU Ban Ki-moon già alcuni anni fa definendo “il cambiamento climatico una ‘Miscela diabolica’ che potrebbe creare pericolosi vuoti di sicurezza e che dobbiamo affrontare come un chiaro pericolo, che non solo esacerba le minacce, ma è in sé una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionali”.