Liberare l’acqua dalla Borsa

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Foto: Unsplash.com

La Borsa di Milano e Palazzo Montecitorio a Roma sono stati gli obiettivi, dal 7 al 9 dicembre, del “popolo dell’acqua”, una rete di cittadini e movimenti che si oppongono alla privatizzazione progressiva di un bene essenziale per la vita di tutti.

Una campagna di pressione portata avanti da soggetti che non dispongono di grandi mezzi e sanno bene di non avere il sostegno delle maggiori forze politiche ma che in maniera sorprendente nel 2011 sono riusciti a vincere un referendum sulla gestione dell’acqua. Una vittoria che deve ancora concretizzarsi a livello di legislazione nazionale.

Perché la Borsa? Non si tratta solo dei prezzi irrisori che grandi società pagano ogni anno per la concessione mineraria delle fonti di acqua minerale ricavandone notevoli profitti. Quello che è in gioco adesso, come sanno bene e da molto tempo i decisori politici, è lo stesso accesso all’acqua potabile. Un diritto desinato a diventare sempre più difficile, anche in Paesi che non hanno mai sofferto problemi di siccità.

Guerre, carestie e migrazioni sono state da sempre originate da questioni legate all’acqua. Ma ora la rarità di tale bene è arrivata ad un punto che vede scendere in campo il mercato finanziario.

Il primo segnale si è registrato il 7 dicembre 2020 negli Stati Uniti quando, come spiega un dossier della Campagna, «per la prima volta nella storia, la Chicago Mercantile Exchange, la società privata che gestisce la più importante Borsa mondiale nel campo delle materie prime, ha aperto l’acqua, come materia prima, alle transazioni speculative a partire dell’acqua in California. Il prezzo fissato  dal  contratto  di  compravendita  a  lungo  termine  (detto  “futures”)  di  un  certo quantitativo d’acqua diventa oggetto di speculazione finanziaria. Fino alla scadenza del contratto, il prezzo convenuto è “titolo” finanziario (cioè, un avere finanziario: un credito per il venditore, un debito per l’acquirente)»...

L'articolo di Carlo Cefaloni segue su Cittanuova.it

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