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Indonesia: la ricerca dell’armonia culturale e ambientale
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Con le sue 17.000 isole e i suoi 220 milioni di abitanti l’Indonesia è lo Stato – arcipelago più esteso e popolato del mondo, costituito da un insieme di intrecci culturali a volte in conflitto e di ambienti naturali spesso disequilibrati che lo rendono una metafora della nostra epoca globalizzata. La ricerca di una via democratica dopo decenni di dittatura che conservi il carattere aperto e tollerante della tradizione indonesiana, anche in campo religioso nonostante tendenze islamiche estremiste, va di pari passo con il tentativo di arginare lo sfruttamento ambientale soprattutto per quanto riguarda la deforestazione. Due processi su cui mantenere l’attenzione.
“Unità nella diversità”: questo slogan, che conosciamo come quello dell’Unione Europea, compare scritto nell’antica lingua giavanese sullo stemma dell’Indonesia. Forse non può che essere cosi per il più grande Stato-arcipelago del mondo, composto da 17 mila isole e abitato da 222 milioni di persone (il quarto paese più popoloso del mondo) appartenenti a svariate etnie e religioni, anche se la stragrande maggioranza (più dell’80%) abbraccia la tradizione islamica.
Ma l’Indonesia non si caratterizza soltanto per questo crogiuolo di culture, per questo ponte di isole che unisce due continenti aprendosi sul Pacifico e mischiando genti da millenni: in essa incontriamo ambienti naturali anche estremi (come i numerosissimi vulcani causa di frequenti e disastrosi terremoti), isole incontaminate assediate dal turismo e dall’inquinamento, estese foreste pluviali indispensabili anche per la nostra sopravvivenza, città tumultuose in perenne crescita demografica.
Questi due aspetti, quello naturale e quello culturale, e il loro delicato rapporto rendono l’Indonesia una concreta metafora del mondo in cui viviamo segnato da un disequilibrio umano e ambientale, da un inevitabile quanto complesso incontro tra culture, da frizioni religiose e economiche sempre a rischio di sfociare in conflitti aperti e sanguinosi.
Dal punto di vista istituzionale, almeno sulla carta e in linea di principio, l’Indonesia cerca di interpretare al meglio il suo passato di convivenza tra diversi. La Costituzione del 1945, frutto di una decennale lotta per l’indipendenza dalla Corona olandese, è formalmente “laica” cioè non prevede nessuna religione di Stato: in essa sono menzionate le cinque religioni fondamentali dell’arcipelago: islamica, buddhista, induista, protestante e cattolica (singolare questa distinzione tra le confessioni cristiane), nessuna delle quali dovrebbe avere un ruolo egemonico, nonostante le diverse percentuali di diffusione. L’Indonesia cercava di favorire questo suo ruolo particolare se non alternativo rispetto alle tendenze globali ospitando nel 1955 a Bandung la prima conferenza dell’Associazione dei paesi non allineati, appena usciti dal colonialismo.
Dall’indipendenza, ottenuta formalmente nel 1949, fino al 1998 furono solamente due gli “uomini forti” alla guida del paese, Sukarno fino al 1967 e Suharto per i trent’anni successivi: il regime di quest’ultimo, militare e anticomunista, causò nei primi anni di potere l’uccisione di circa un milione di avversari politici e soprattutto contadini poveri. Il ritorno di uno Stato tendenzialmente democratico e multipartitico (dal 1998 ad oggi si sono succeduti tre presidenti) sconta la frammentarietà dell’arcipelago e mantiene un forte controllo sulla stampa. Le elezioni di quest’anno hanno registrato violenze nella regione di Papua e una generale pressione sui giornalisti e sugli attivisti per i diritti umani.
Nel paese la lotta anticoloniale era stata condotta quasi esclusivamente da ambienti musulmani nonostante che la penetrazione della religione islamica sia stato un fatto relativamente recente dopo essere rimasta per secoli circoscritta alle zone costiere. Dagli inizi del ‘900 essa diventa massiccia e decisiva per le future sorti dell’Indonesia.
La storia recente, segnata inevitabilmente per i media occidentali dall’attentato terroristico di Balì del 2002, dallo tsunami del 2004 e dal crescere della conflittualità interreligiosa, ci parla di un avanzare di quello che si definisce fondamentalismo islamico, di quanti cioè sognano il Califfato e l’applicazione generalizzata della sharia. Il Governo centrale fatica a contenere questa tensione latente anche se dal punto di vista legislativo si cerca di mantenere la libertà religiosa. Tuttavia questa tendenza estremistica sembra non essersi ancora impadronita della comune mentalità indonesiana storicamente tollerante con le diversità secondo il principio orientale dell’armonia.
Un’armonia difficilmente riscontrabile nel settore ambientale in cui multinazionali occidentali con la compiacenza del governo sfruttano in maniera sconsiderata le ricchezze del paese costituite soprattutto dal legname, il cui commercio illegale è stato recentemente vietato con un regolamento dell’Unione Europea.
Occorre ricordare che le foreste in Indonesia occupano una superficie di 22 milioni di ettari e che nell’isola di Sumatra si trova la maggior parte delle torbiere del mondo. Va da sé che la massiccia deforestazione (che negli anni 90 procedeva con la perdita di 200 mila ettari l’anno, mentre nei primi anni duemila questa cifra si è ridotta a 50 mila) è causa indiretta di emissioni di anidride carbonica: l’Indonesia diventa così il terzo paese per emissioni di gas serra dopo Stati Uniti e Cina.
Se fa sempre notizia la lotta contro l’estremismo è difficile trovare attenzione per la lotta ancora più urgente e decisiva contro la connessione tra ditte senza scrupoli e politici compiacenti che svendono il territorio causando danni irreversibili non solo alle popolazioni locali ma anche all’ecosistema globale. Per questo è cosi necessario tenere d’occhio il più esteso e variegato arcipelago del mondo.
Piergiorgio Cattani
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