Wang Quanzhang: In prigione ho subito torture per strapparmi una confessione

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Foto: Unsplash.com

Per strappargli una dichiarazione di colpevolezza, in carcere lo hanno torturato. Lo ha rivelato l’avvocato per i diritti umani Wang Quanzhang all’agenzia nipponica Kyodo, nella prima intervista rilasciata a un organo di stampa dopo aver finito di scontare la sua pena in aprile.

Wang ha trascorso più di quattro anni in prigione per “sovversione contro lo Stato”. Finito di scontare la detenzione in una carcere dello Shandong, l’attivista ha potuto raggiungere la sua famiglia a Pechino solo il 27 aprile, dopo due settimane di quarantena per il coronavirus e un ulteriore fermo di sette giorni.

Egli era stato arrestato nel 2015 in un’operazione di sicurezza denominata “709” (in quanto cominciata il 9 luglio di quell’anno), che aveva colpito altri 300 colleghi – fra essi anche alcuni cristiani protestanti e cattolici. Molti di loro sono stati processati e poi condannati; diversi hanno “confessato” in video le loro colpe; altri sono usciti dalla prigione molto provati dal punto di vista fisico e psicologico, a causa delle torture subite.

Oltre ai fedeli del Falun Gong, Wang è salito alla ribalta per aver difeso attivisti politici (tra cui esponenti del Movimento dei nuovi cittadini), comunità cristiane sotterranee  e contadini vittime di espropri ritenuti illegali. Wang racconta che in prigione due agenti di polizia lo sorvegliavano 24 ore al giorno. Per fiaccare la sua resistenza, lo obbligavano a restare in piedi con le mani in alto per 15 ore di fila. Quando, sfinito, lasciava cadere le braccia, i suoi carcerieri gli gridavano “traditore!”.

Dopo essere stato schiaffeggiato in volto per ore, bastonato e preso a calci, l’attivista 44enne è stato obbligato a firmare una dichiarazione giurata con la quale “confessava” di aver tentato di rovesciare il governo grazie a fondi ricevuti dall’estero.

Durante il primo processo nei suoi confronti, che si è svolto a porte chiuse, l’attivista è stato sbattuto a terra dalle guardie per aver chiesto ai giudici cosa intendessero per “governo del Paese fondato sulla legge”. Il codice di procedura penale cinese vieta in modo esplicito l’uso della tortura per estorcere confessioni. Quando Wang ha tentato poi di ricorrere in appello alla condanna a quattro anni, un ufficiale giudiziario lo ha minacciato prospettandogli un’estensione della pena a otto anni.

Il mio caso – afferma Wang – dimostra che il procedimento giudiziario in Cina è lacunoso. Polizia, magistrati inquirenti e giudici hanno stravolto la legge”. Lo scorso mese, egli aveva annunciato di voler ricorrere in giudizio contro la sua condanna.

Da: Asianews.it

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