La democrazia è naufragata nel proprio mito

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Foto: Unsplash.com

D’accordo, ha vinto Donald Trump e, sinceramente, non c’è nulla di sorprendente. La vittoria di Trump è scritta nella deriva ormai storica degli Stati Uniti, nel loro essere diventati negli ultimi anni la più fragile delle fragilissime democrazie mondiali.

Il popolo degli Stati Uniti – come quasi tutti i popoli europei, per stare a casa nostra – della democrazia così come è diventata non sa che farsene. Perché non ci può essere democrazia, al di là delle parole, se il tasso di povertà individuale cresce ogni anno e la forbice che divide il più povero dal più ricco si allarga a dismisura. Non c’è democrazia se, al di là dei proclami, la concretezza della povertà non dà accesso ai diritti elementari: alle cure mediche di buon livello, all’istruzione dignitosa, agli ammortizzatori sociali, a contratti di lavoro che rispettino paghe e diritti. Non ci può essere alcuna forma di democrazia se la cultura media è insufficiente, a causa di una istruzione scolastica che non educa alla cittadinanza e alla cultura stessa. Non dimentichiamolo: negli Usa, in molti Stati non è ancora permesso insegnare a scuola la teoria scientifica evoluzionista. I professori che lo fanno rischiano la galera. Si deve insegnare che il Mondo è stato creato da Dio in sette giorni, come dice la Bibbia. Nel 2006 le guide turistiche del Grand Canyon del Colorado ricevettero la direttiva di non rispondere a chi domanda l'età del canyon, cioè 5 o 6 milioni di anni secondo i geologi, per non "offendere la sensibilità dei fondamentalisti religiosi”.

In tutto questo, la “grande democrazia statunitense” – ma, lo ripeto, la medesima cosa sta accadendo in Europa – è naufragata nel proprio mito. Il segnale chiaro ce lo aveva dato il 6 gennaio del 2021, quando i sostenitori di Trump, alimentati dalla retorica dell’allora ex ed ora neo presidente, avevano preso d’assalto la Camera, perché non accettavano il risultato elettorale. Nessuno ha pagato per quello che è accaduto. Gli Stati Uniti l’hanno apparentemente archiviato sotto la voce “folklore” e non hanno messo in campo contromisure reali e democratiche.

Quindi, come era logico aspettarsi, ha vinto Trump, un autocrate che, come tanti suoi colleghi europei, sa parlare alla pancia di chi si sente ormai perennemente vessato. Fossimo in altri tempi, potremmo scrivere che la vittoria del miliardario statunitense è la sconfitta della “borghesia progressista”, quella che in ogni luogo del Pianeta pensa di essere sempre dalla parte dei buoni.

Cosa accadrà ora? Probabilmente, molto meno di quanto sia già accaduto. Sul piano internazionale, la posizione degli Stati Uniti cambierà di poco. Continuerà il contrasto all’espansione cinese e alle ipotesi di “de dollarizzazione” dei mercati. Nel Vicino Oriente continuerà l’appoggio a Israele, con l’Iran sempre nel mirino. A rimetterci di più sarà la vecchia Europa, che Trump non ama e ci guadagnerà quella nuova, cioè Ungheria, Bulgaria, Polonia e Repubblica Ceka, Paesi tutti meno impegnativi dal punto di vista dei diritti democratici.

Per il resto, dopo questa elezione, dobbiamo prendere atto che le democrazie tutte, per come le conosciamo, sono uscite dalla fase della crisi e sono entrate in quella della “morte cerebrale”. Non sarà mai e non sarà più attraverso il semplice voto che le rifonderemo. Gli autocrati, tutti, hanno nella borsa i colpi migliori e sanno che proprio l’illusione che la democrazia sia tutto chiusa nell’atto del voto è il loro strumento di potere più efficace. Le democrazie riprenderanno vita solo se supereranno questo mito e rimetterenno in campo la partecipazione che parte dal basso e ricostruiremo la rete dei diritti essenziali per gli individui e la collettività. Rinasceranno se smetteranno di creare sacche di disoccupazione utili a ricattare i lavoratori e a smantellare i contratti nazionali, se riattiveranno il diritto alle cure mediche, se miglioreranno la scuola, la ricerca, se creeranno forme di partecipazione alla vita pubblica. La democrazia non è quella che propone Trump, non è l’affermarsi dell’individuo sulla collettività. È l’esatto contrario: è l’individuo che trova certezze e futuro nel rapporto con gli altri. E nella fiducia al sistema. 

Raffaele Crocco

Sono nato a Verona nel 1960. Sono l’ideatore e direttore del progetto “Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo” e sono presidente dell’Associazione 46mo Parallelo che lo amministra. Sono caposervizio e conduttore della Tgr Rai, a Trento e collaboro con la rubrica Est Ovest di RadioUno. Sono diventato giornalista a tempo pieno nel 1988. Ho lavorato per quotidiani, televisioni, settimanali, radio siti web. Sono stato inviato in zona di guerra per Trieste Oggi, Il Gazzettino, Il Corriere della Sera, Il Manifesto, Liberazione. Ho raccontato le guerre nella ex Jugoslavia, in America Centrale, nel Vicino Oriente. Ho investigato le trame nere che legavano il secessionismo padano al neonazismo negli anni’90. Ho narrato di Tangentopoli, di Social Forum Mondiali, di G7 e G8. Ho fondato riviste: il mensile Maiz nel 1997, il quotidiano on line Peacereporter con Gino Strada nel 2003, l’Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo, nel 2009. 

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