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Omofobia: lo stigma che nuoce anche al Pil
Codici di condotta
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Violenze, molestie, arresti, torture, uccisioni mirate: a questo portano le leggi contro lesbiche, gay, transgender e bisessuali che diversi governi negli ultimi anni hanno deciso addirittura di inasprire (pensiamo ad esempio a Russia e Uganda). Le condanne da parte dei leader mondiali, come il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon e quello degli Usa John Kerry, sono all’ordine del giorno, ma mentre le critiche si concentrano soprattutto all’interno del quadro dei diritti umani o morale, risultando spesso inefficaci, comincia a farsi largo una corrente di pensiero alternativa che si propone di analizzare i costi negativi delle legislazioni omofobe e dell’omofobia anche e soprattutto da un punto di vista economico. A cavalcare questa linea d’azione è – paradossalmente – la Banca Mondiale, macro-organismo che in realtà ha sempre evitato di impelagarsi nelle questioni interne e politiche degli Stati a cui concede prestiti e agevolazioni (per molti, in realtà, un’ingerenza in sé).
Non che ci si debba sorprendere: da sempre l’esclusione di una minoranza si ripercuote sul contesto socioeconomico. Nel caso della popolazione LGBT, l'omofobia può portare infatti alla perdita di posti di lavoro, alla discriminazione nei luoghi dell’educazione e dell’impiego, all’invisibilità per paura di ripercussioni e alle differenziazioni delle prestazioni in ambito sanitario, col pericolo di innescare un ciclo di povertà ed emarginazione da cui è difficile sganciarsi. Le Banca Mondiale ha deciso di indagare su questi legami in gran parte inesplorati nel 2012, quando ha ricevuto una sovvenzione dal Fondo Fiduciario Nordico per rilevare e raccogliere dei dati socio-economici sulle minoranze sessuali in India e sviluppare un modello economico in grado di misurare il costo finanziario dello stigma. Lo studio, guidato dall’economista M.V. Lee Badgett, si è incentrato sull’esclusione sociale dovuta alle carcerazioni, alla perdita dei posti di lavoro, alle molestie a scuola, e anche ai matrimoni etero forzati, fino alle disparità nei trattamenti sanitari – soprattutto nei casi di HIV, suicidio e depressione – valutando un costo fino a 30,8 miliardi dollari l'anno, pari all'1,7% del prodotto interno lordo del paese: "Una forte riduzione del PIL che potremmo benissimo chiamare recessione", ha detto Bagdett, che ha dichiarato come i dati raccolti potrebbero essere solo la punta di un iceberg.
Una ricerca pubblicata a marzo su Global Health Nation ha mostrato ad esempio come la discriminazione legislativa e sociale della minoranza LGBT in diversi Stati africani influisca in modo pesante sui servizi sanitari, in cui anche il personale è portato a fare differenziazioni sulla base della paura e dei pregiudizi. “Sono andato a [nome Ospedale], avevo il viso truccato e il medico mi ha subito detto che, siccome ero gay, non sarei stato curato – racconta un ragazzo intervistato nello studio – Mi ha detto di andarmene al più presto perché altrimenti mi avrebbe iniettato del veleno. Stavo davvero male ma me ne sono andato senza ricevere le cure”. La ricerca sottolinea come tali comportamenti discriminanti siano più comuni nelle cliniche pubbliche rispetto a quelle private. Ne consegue che chi è più povero spesso finisce per evitare le strutture per paura dello stigma (per non parlare delle possibili denunce), favorendo il diffondersi delle malattie sessualmente trasmissibili e della disinformazione in materia di salute soprattutto negli ambienti sociali più svantaggiati.
Per quanto riguarda il lavoro, non va molto meglio. L’Ilo, ha sottolineato come per i trangender, ad esempio, la situazione sia “anche più grave in quanto soggetti a gravi discriminazioni che si manifestano sotto varie forme: impossibilità di ottenere documenti di identità, non accettazione del nuovo sesso da parte del datore di lavoro, maggiore vulnerabilità a forme di bullismo da parte dei colleghi e molto altro. I lavoratori transgender rischiano di essere completamente tagliati fuori dal mercato del lavoro formale”. Un aspetto che la Banca Mondiale ha sottolineato anche nel nuovo video di sensibilizzazione uscito pochi mesi fa a rimarcare la tesi secondo cui la discriminazione contro le minoranze sessuali contribuisce alla creazione di quel famoso ciclo di povertà che si autoalimenta. Ed ha affermato che studi del genere proseguiranno, suscitando il plauso di membri della società civile come l’avvocato e attivista LGBT nigeriano Adebisi Alimi, fuggito nel Regno Unito dopo essere scampato a un attentato, secondo cui la Banca dovrebbe valutare anche l’inclusività come criterio per i suoi prestiti: “Se la Banca - che attualmente presta alla Nigeria quasi 5,5 miliardi dollari e prevede di aggiungere 2 miliardi di dollari per ciascuno dei quattro anni successivi - continua in questa direzione, altri finanziatori potrebbero prendere il suo esempio” commenta sul sito del World Economic Forum.
Eppure i passi indietro dei governi in questo senso sono preoccupanti. Le Nazioni Unite contano ad oggi 77 nazioni che criminalizzano l'omosessualità, tra cui sei che prevedono la pena di morte. Oltre ai già citati Russia e Uganda, le discriminazioni su base legislativa aumentano in paesi come Egitto, Malawi e Cameroon, e campagne d’odio si stanno spargendo in Etiopia, o ancora in Kenya, dove l’anno scorso un gruppo di parlamentari aveva formato un comitato per chiedere addirittura la lapidazione e l'ergastolo dei LGBT. Iniziative di raccolta dati come quella della Banca Mondiale, o i congelamenti e le sanzioni punitive potranno servire a migliorare la situazione dei diritti umani e civili?
Non tutti si fidano. Intanto perché alla fine le sanzioni vanno comunque a colpire soprattutto la fetta di popolazione più vulnerabile (e quindi le minoranze), e poi perché c’è chi pensa siano soprattutto interventi di mera facciata che non vanno al nocciolo della questione. “È molto più facile per gli istituti finanziari, economici e di governance occidentali e globali affrontare i problemi da punto di vista delle identità, piuttosto che essere costretti a cambiare le regole – commenta ad esempio la studiosa Leila van Rinsum su Awaaz Magazine – Invece di guardare alla giustizia economica, alla parità e alla modifica delle strutture di potere, invece di guardare al sistema che crea e mantiene la povertà, anche la società civile ha scelto di guardare alle "minoranze" - le persone che vivono con disabilità, contadini, donne, bambini, LGBTI - oscurando così la lotta condivisa e connessioni di oppressioni”.
Anna Toro

Laureata in filosofia e giornalista professionista dal 2008, divide attualmente le sue attività giornalistiche tra Unimondo (con cui collabora dal 2012) e la redazione di Osservatorio Iraq, dove si occupa di Afghanistan, Golfo, musica e Med Generation. In passato ha lavorato per diverse testate locali nella sua Sardegna, occupandosi di cronaca, con una pausa di un anno a Londra dove ha conseguito un diploma postlaurea, sempre in giornalismo. Nel 2010 si trasferisce definitivamente a Roma, città che adora, pur col suo caos e le sue contraddizioni. Proprio dalla Capitale trae la maggior parte degli spunti per i suoi articoli su Unimondo, principalmente su tematiche sociali, ambientali e di genere.