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Natura urbana, quale futuro?
Codici di condotta
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Foto: Unsplash.com
Le città nascono per mano dell’uomo. Appare quindi molto coerente e sensato che esse siano sempre state – e siano tuttora – percepite da coloro che le hanno edificate come spazi fortemente specie-specifici e identitari: del clan, dell’etnia, della popolazione di appartenenza dei fondatori, ma comunque come spazio ad esclusivo uso e consumo degli esseri umani che vi abitano, vi scambiano prodotti, vi estraggono e trasformano risorse.
Una percezione indubbiamente antropocentrica, per molti a ragione: l’umanità urbanizzata, enfatizzando la dimensione artificiale dell’agglomerato cittadino, ne ha esaltata la rispondenza a funzioni squisitamente al servizio della complessa socialità e società di Homo sapiens. Ma prima? Chi abitava quegli spazi prima dell’arrivo dell’uomo? Chi li abita ancora?
È chiaro che questo sguardo ha escluso dal suo campo visivo un dato di fatto, come sottolineano Alessandra Pallaveri e Osvaldo Negra, curatori della mostra Wild Cities esposta al MUSE – Museo delle Scienze di Trento e chiusasi con l’inizio di novembre 2023. Lo “strato abitativo” è solo “l’ultimo e il più superficiale e - pur con brutale capacità di eliminazione del sottostante - si adagia su precedenti strati naturali, su morfologie e territori che sono stati sede di ecosistemi (e lo sono tuttora, anche se trasformati)”.
Che si tratti di una città allungata sulle rive di un fiume usato come via di trasporto a fini commerciali o di un centro urbano addossato a una parete rocciosa a scopo difensivo o edificato su una collina a fini di maggior salubrità, ogni agglomerato umano si è installato su territori preesistenti e inevitabilmente sulle relative comunità di piante e animali; nel proliferare, ha cancellato, eroso o alterato gran parte delle originarie coperture vegetali e dei popolamenti animali. Si tratta di un processo che è avvenuto ovunque, anche se non ovunque con la stessa drastica sistematicità.
Crescendo in dimensioni e complessità, la città ha sì strutturato uno spazio artificiale tridimensionale, ma non sempre ostile agli altri organismi viventi, per i quali più che la distinzione tra “selvatico” e “antropico” vale quella tra contesti “difficili” e contesti “facili”. La città, sottolineano Pallaveri e Negra, “ha configurato un’insolita situazione ecosistemica in cui c’è una paradossale compresenza di forte alterazione territoriale e abnorme disponibilità di risorse per gli organismi in grado di accedervi.”
In pratica, disagi in cambio di cibo maggiormente accessibile.
Nel 1800, solo il 3% della popolazione umana mondiale viveva in città. Nel 2014 la popolazione urbana era stimata attorno al 54% della popolazione globale. “Pur con vistose differenze geografiche, la condizione caratterizzante l’ultimo decennio vede la maggioranza della popolazione mondiale concentrarsi e vivere in aree urbane, cioè in zone che l’uomo ha fortemente trasformato a proprio uso e consumo andando a costruire, a discapito degli ambienti naturali o dei contesti agricoli, un particolare antroma o “bioma antropogenico” che gli ecologi indicano come dense settlement (insediamento umano a elevata densità), in cui gli individui umani trascorrono spesso gran parte dell’esistenza”. E a prescindere dalle nostre aspettative, non si tratta affatto di un’esistenza solitaria e isolata dal contesto e, con ogni probabilità, lo sarà sempre meno: le città continuano a crescere a livello demografico, a espandersi e a fagocitare le periferie coltivate e i territori più o meno naturali del circondario.
Le conseguenze? Che le specie ecologicamente delicate o “esigenti” arretrano, tracollano, scompaiono, mentre le altre, quelle con maggior plasticità (di nicchia, di dieta, di comportamento…) tentano la via dell’insediamento che, a fronte di innegabili svantaggi e molte barriere, può offrire anche qualche apprezzabile vantaggio. “L’emergere di una speciale natura urbana significa che l’uomo può essere visto come “ingegnere ecosistemico”, prendendo in prestito il termine che in ecologia si riferisce a un organismo in grado di modificare il proprio ambiente in modo da creare nuove nicchie per altre specie”.
Se in alcuni casi l’inurbamento delle specie selvatiche è incidentale o conseguenza di eventi fortuiti (p.es. il trasporto inconsapevole da parte di un vettore umano), altre volte è invece esito di una sorta di “intraprendenza ambientale” di un animale o di una pianta che provano ad insediarsi in uno spazio o un contesto antropogenico che prima non esisteva. Indipendentemente dal come, qualsiasi organismo stabilmente inurbato comincia a essere permanentemente esposto ai condizionamenti ecologici propri della città, a risentirne dei limiti e ad avvantaggiarsi delle opportunità. Un’evoluzione cittadina che coinvolge anche gli spazi verdi residui o creati, che diventano a tutti gli effetti le basi per piramidi ecologiche modificate che contribuiscono a loro volta a modificare le caratteristiche urbane, p. es. con il ruolo di impollinatori o nella forte valenza migliorativa rispetto alla qualità della vita psicologica e della resilienza di tutte le comunità presenti.
Se lo scenario all’orizzonte è quello dell’aumento della superficie occupata da insediamenti urbani sempre più espansi, i processi e le pressioni evolutive che si vanno a instaurare nelle città saranno essenziali nel plasmare quella componente di biodiversità urbanizzata che, trasformata dal vivere cittadino, accompagnerà la nostra specie nelle prossime tappe dell’Antropocene e, chissà, magari riuscirà anche ad affinarne la biofilia e migliorare le basi per una più autentica coesistenza.
Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.