Mio fratello Ibrahim

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Foto: M. Canapini

Il progetto L’ovale storto è un pellegrinaggio sui campi da rugby italiani, con lo scopo di condividere e raccontare le capacità riabilitative, propedeutiche e inclusive della palla ovale, attraverso temi (e storie) quali omofobia, disabilità, carcere. Utenti psichiatrici, malati di Parkinson o adolescenti di periferia ne sono i protagonisti. Qui il secondo capitolo relativo alle Tre Rose, unica squadra composta per l’80% da rifugiati e richiedenti asilo. 

All’ingresso del circolo Arci Pantagruel stringo la mano a Mirella Ruo, presidentessa della cooperativa sociale Se.Na.Pe, primissima ideatrice del progetto “Rugby e integrazione”. La cooperativa assiste centocinquanta profughi che vengono accompagnati lungo il cammino istituzionale. «Una squadra di rifugiati, perché no? Ho ottenuto il patrocinio della Regione Piemonte e un piccolo aiuto economico da un imprenditore locale. Abbiamo recuperato alcuni vecchi container da utilizzare come spogliatoi e una Club House dove poter mangiare un piatto di pastasciutta. Convincerli a giocare a rugby è stato molto complicato; il mito del calcio è pressante, idilliaco. Gran parte dei ragazzi ospitati nelle nostre strutture si portano dietro storie di fughe e riscatti sociali: chi trova lavoro, chi vaga senza documenti, chi è in attesa di un cenno del passeur che, dal corridoio di Ventimiglia, li porterà in Francia. È così da anni. Come cooperativa forniamo riso, verdure, detersivo e quindici euro ciascuno a settimana». Un ragazzo sotto effetto spasmodico di oppio barcolla fuori dagli uffici della cooperativa, il naso incollato al cellulare. Dentro, Mamadou, Mussa, Babacar, volti incontrati all’allenamento dell’altro ieri, attingono alla rete Wifi.  Postano foto, video-chiamano casa, dicono che tutto è ok, seduti tra scatoloni polverosi e mappe cartacee appese sbilenche al muro. Black John, ragazzo ghanese di 19 anni, racconta la sua orribile odissea come se parlasse di una gita fuori porta. Cinque mesi di prigione in Libia, la sorella morta ammazzata, le torture inflitte, la carretta di legno in mezzo al Mediterraneo, lo svenimento per denutrizione e poi la salvezza. Ripete tutto come fosse un protocollo pre registrato, con gli occhi spenti fissi nei miei, privi di emozione, prima di tornare alle chiacchiere allegre in dialetto akuapem. Non capisco davvero se l’autenticità stia nella storia fasulla, creata per impressionare la commissione e dunque aver maggiori chance di ottenere lo status di rifugiato. Nella possibilità che sia tutto vero, come capitato a tanti altri fratelli e sorelle d’Africa. O nel mettere in dubbio da parte mia l’una o l’altra versione.

All’interno di uno dei tanti palazzoni freddi di Valenza, con l’androne delle scale marcio e il corrimano mangiato dai tarli, raccattiamo Frank e Bilal imbambolati davanti alla Playstation, i piedi coperti da tre paia di calzini. Paolo non suona neppure, trascina e spinge fuori i giocatori più svogliati. Qualcuno si nasconde: «Troppo freddo per allenarsi» grida una voce profonda al di là dell’uscio. Ma al campo, nonostante la poca motivazione di alcuni, ci ritroviamo in venti e più persone. Mussa spazza le ruck che è una meraviglia, sbuffando come un torello. Siriki si invola sulla fascia come un fulmine, la pertica Mamadou col braccio teso svetta in touche e raggiunge i tre metri di altezza. Ismael il macellaio e Fabio il capitano, spiaggiati, se la ridono. In panchina è presente anche Babacar, ex ala destra della squadra, secco come un chiodo ma con ossa talmente forti da buttare giù anche i più grossi, giura compiaciuto. Youssef è quello che corre forte. Spezza la linea difensiva segnando cinque mete ad allenamento: un tipo svelto di gambe e testa. Non fai in tempo a spiegargli una cosa che la mette in pratica meglio di te. «Finalmente, dopo tanti anni, è tornato un sudanese a Rosignano» scherza spesso Paolo riferendosi invece a Waleed Bakhet, originario di Malakal, che inconsciamente si porta dentro un gemellaggio segreto con Michele Amatore, detto il Capitano Moro, nato nelle montagne di Nuba nel 1826 e morto a Rosignano nel 1835. Nello spogliatoio sospeso tra vapori e musichette reggae, le Tre Rose, in un eccesso di gentilezza, lasciano la doccia più efficiente libera per l’ospite. «Duma» esorta Issah dal cortile, attingendo parole dal dialetto piemontese per smuovere i compagni più pigri, prima di infilarsi dentro la notte nera come pece. 

Ibrahim ha gli occhi neri e profondi, un sorriso lineare ma contagioso. «Prima ancora di essere ospite, ricordati che sei mio fratello» dice, offrendomi l’ennesimo pezzo di crostata alla crema. L’appartamento del giovane ivoriano si affaccia su una via secondaria di Casale, picchiettata da una pioggia umida e costante che rende la cittadina ancor più grigia e cupa ormai da sette giorni. Ibrahim, 32 anni, è l’unico ragazzo del gruppo ad avere già praticato il gioco della palla ovale da adolescente, in un college lungo la costa che conduce a San Pédro. Mai avrebbe pensato di ricominciare un nuovo capitolo sportivo in Piemonte, terra di Barolo e Bagna cauda. «Lungo il cammino per raggiungere l’Europa erano migliaia i pellegrini. Bambini, donne incinta, ragazzi. Abbiamo attraversato il Niger pagando 1.500 euro a testa, poi la Libia, alla mercé di militari corrotti e trafficanti di uomini. In pieno deserto sono rimasto tre giorni senza acqua né cibo, sopravvivendo al freddo intenso coprendomi con del fogliame secco. In una prigione nei sobborghi di Tripoli mi hanno picchiato le piante dei piedi e la schiena con un tubo d’acciaio. Ho resistito due settimane, dopodiché ho pagato e sono ripartito verso nord. Sorte peggiore spetta alle ragazze. Ne ho viste tante partire dalla Nigeria, gli occhi pieni di speranza, per poi finire a battere sui marciapiedi di mezza Europa per colpa di qualche mafioso senza scrupoli. Sul barcone eravamo in ottantacinque: chi urlava, chi piangeva, chi pregava. I libici, prima di partire, hanno puntato una torcia sulle onde del mare, indicando una fioca luce in lontananza: quella è l’Italia, andate sempre dritto e arriverete in poche ore hanno assicurato. Il barcaiolo era maliano, conduceva il mezzo con fatica. Il mattino seguente eravamo ancora nel mar di Tunisia: stanchi, affamati, disidratati. Onde altissime ci hanno investito, poi, al terzo giorno: Lampedusa! Dodici giorni in ospedale a Crotone prima di essere spedito a Torino e successivamente qui a Casale. Sono arrivato un anno e tre mesi fa. Non mi lamento, non sarebbe giusto farlo. Lavoro un po’ come mediatore culturale, frequento lezioni di italiano, Mirella mi dà una mano con l’affitto. Altri compagni sono qui da due, tre anni ma ancora faticano a parlare la lingua, non si applicano forse, ed è brutto non farsi capire da chi ti sta vicino. Non conosco le storie di tutti i miei compagni di squadra ma so che molti si fingono di un’altra nazionalità sperando di avere più benefici di fronte la commissione. Ciò non toglie quello che abbiamo passato. Noi migranti stiamo a galla come possiamo, tentiamo di fare gruppo per sentirci meno soli e un po’ più a casa. Più che da guerre vere e proprie, io, Mussa, Youssef e tanti altri scappiamo da odi tribali, scontri famigliari, proprietà di terra andate a male, persecuzioni» prosegue Ibrahim riprendendo fiato come dopo un placcaggio. «Mio padre è stato ucciso, mio zio mi picchiava e come se non bastasse abbiamo perso il raccolto. Non potevo rimanere. Sono scappato lasciando mia madre in un villaggio di capanne senza corrente elettrica a due ore da Soubré. Mentiamo sulla nostra identità forse, ma siamo solo ragazzi in cerca di benessere, serrati tra burocrazia e confini tirati con il righello. Nient’altro». Il ragazzo dal cuore d’ebano da un occhio all’ora, inforca la bicicletta e si dirige sereno al campetto del Ronzone. A volte, guardandolo bene, lo sguardo di Ibrahim si fa vitreo o forse guarda solamente un mondo lontano a noi invisibile, oltre i pali ad H sghembi. Lo immagino ripensare alle sabbie bianche e letali del Niger, a una vita imprevedibile come i rimbalzi di un ovale. 

L’ultimo giorno, nel parcheggio del campo, troviamo il pulmino della squadra mezzo distrutto. I finestrini anteriori polverizzati, i cavi delle luci recisi, la leva del cambio svanita e l’adesivo sulla fiancata in parte staccato. «Sarà un gesto fatto per ripicca, razzismo, gelosia» commenta a freddo Paolo alzando laconico le spalle. Non c’è tempo per disperarsi. Vicino la sacca dei palloni si alza il grido di battaglia delle Rose nere: «1-2-3 rose!» esclamano i ragazzi, prima di schiaffeggiare sulla testa le giovani reclute, le quali, imprecando in bambara e susu, scappano in tre direzioni opposte mettendo in atto lo stesso principio delle galassie: più si allontano tra loro e più corrono veloci.

Matthias Canapini

Matthias Canapini è nato nel 1992 a Fano. Viaggia a passo lento per raccontare storie con taccuino e macchina fotografica. Dal 2015 ha pubblicato "Verso Est", "Eurasia Express", "Il volto dell'altro", "Terra e dissenso" (Prospero Editore) e "Il passo dell'acero rosso" (Aras Edizioni).

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