La finanza e la giunta birmana

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Immagine: Unsplash.com

C’è anche la finanza italiana nell’ultima denuncia di BankTrack (BT) e Justice for Myanmar (JfM), due organizzazioni della società civile che fanno le pulci a soggetti economici che hanno avuto e in alcuni casi hanno ancora relazioni con i golpisti birmani, che da febbraio hanno già ucciso oltre 930 oppositori e ne tengono in galera quasi 7mila, tra cui i vertici della Lega di Aung San Suu Kyi. In alcuni casi, le aziende (specie i colossi petroliferi) hanno fatto marcia indietro dopo le denunce degli oppositori alla giunta. In altri, han preso subito le distanze. C’è poi chi ha fatto spallucce.

La lista dei Big-19

BT e JfM hanno compilato una lista con 19 banche che investono ciascuna oltre 1 miliardo di dollari in società che lavorano con la giunta militare: sono Crédit Agricole, Sumitomo Mitsui Trust, Mitsubishi UFJ Financial, Bank of America, JP Morgan Chase & Co., UBS, Deutsche Bank, Morgan Stanley, BPCE Group, Credit Suisse, Mizuho Financial, Société Générale, Wells Fargo & Co., Goldman Sachs, Royal Bank of Canada, BNP Paribas, Barclays, DZ Bank, Toronto-Dominion Bank. Un’altra lista di BT e JfM mette invece in luce partecipazioni minori, fino a 100 milioni, di altri istituti. Negli elenchi vengono menzionate anche due banche italiane: Unicredit e Intesa.

I Big-19 non sono nuovi a scandali e accuse. JP Morgan nel 2018 accettò di versare agli Usa quasi 5,3 milioni di dollari per la presunta violazione «87 volte» delle sanzioni imposte a Cuba, all’Iran e alla Siria (tra cui quelle contro le armi di distruzione di massa). Non da meno l’elvetica Ubs: nel 2008 l’India avvia un’indagine su trafficanti d’armi per riciclaggio, sospendendogli la licenza. Un controllo ai giapponesi del Mizuho Financial Group rivelò invece prestiti fino a 1,9 milioni di dollari alla Yakuza, la mafia giapponese. L’accusa del 2007 per la Royal Bank of Canada era invece di rifiutarsi di aprire conti a loro cittadini con doppia cittadinanza (birmana, cubana, iraniana, sudanese). Tra quelle mosse ai britannici della Barclays, sostegno finanziario al governo dello Zimbabwe di Mugabe (ignorando le sanzioni dell’Ue) e riciclaggio dei proventi del petrolio rubati alla Guinea Equatoriale.

Il caso Unicredit

In realtà, il possesso di azioni o il finanziamento di società presenti “sulla carta” in Myanmar non vuol dire automaticamente che le aziende finanziate siano ancora attive dopo il golpe. È il caso di Eni, cui Unicredit contribuisce con circa 280 milioni, che ha ripetutamente smentito attività in Myanmar poiché quelle a suo tempo concordate col governo di Suu Kyi sono state interrotte dopo il golpe di febbraio...

L'articolo di Alessandro De Pascale Emanuele Giordana segue su Atlanteguerre.it

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