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(R)esistenze
Riconciliazione
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Foto di M. Canapini ®
Perlustro in lungo e in largo la parte alta di Ventimiglia, miscuglio di più geografie: Palermo, Mont Saint-Michel, Genova. In un canale lurido un trentenne, probabilmente afgano, si dondola con le gambe infilate nel sacco a pelo, sorseggiando lattine di birra. Attorno volano caimani, piccioni e gabbiani. Ritorno sui miei passi, osservando con più attenzione i resti dell’accampamento in zona Gianchette. Rimangono mucchi di legna bruciacchiata. Resti di tende, suole di scarpe, fiammate di fuliggine impresse sulle colonne. Alle 22.00, le porte del campo della Croce Rossa si chiudono e molti preferiscono rimanere fuori, cercando un’atmosfera meno claustrofobica. Così ha scelto Wiliam, che parla da solo, un po’ come faceva Kingsley a Claviere, coprendosi gli occhi con un cappello di lana e le chiappe con un paio di pantaloni bucati. Stanno tutti alla larga da Wiliam, divenuto tocco a furia di dormire sopra l’ortica, a furia di condividere il pane coi topi di fiume. I bidoni gialli della Sammontana sono i pilastri del bar Hobbit, gestito da Delia Buonuomo. “Il mio locale è divenuto un punto d’incontro, il ‘bar dei migranti’ lo chiamano. Do una mano ai ragazzi di passaggio con prezzi più accessibili, 1 euro per un pacco di biscotti, anche se l’80% sceglie la granita” racconta la donna, il corpo esile abbracciato da una camicia blu con colletto rigido. “Si è sparsa la voce e la compassione è divenuta tabù. I miei amici, vicini di casa, i dipendenti del Comune e quelli delle Poste sono spariti, prima erano clienti fissi. Molti non sono più venuti perché dicono che i neri portano malattie.
Qui davanti c’è l’Ecole Francaise De Vintimille e, di tutti quanti, solo un padre (brasiliano) col figlio passa per prendere un caffè. È da due anni che va così, durante i quali ho visto la polizia fare blitz, controlli, chiudere l’accesso alla via manco fossi Totò Riina. Non credevo che la solidarietà fosse una colpa. Ora rischio la bancarotta solo per aver aiutato gente bisognosa. Ho appeso volutamente l’articolo 3 della Costituzione: Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. Un giorno un commissario mi ha detto esplicitamente che non dovevo far entrare migranti nel mio esercizio commerciale. Io ho risposto che è contro la legge, perché il bar è pubblico e può entrare chiunque: neri, gialli, verdi, alti, bassi, belli e brutti. E se mi trovo davanti un italiano con la pelle nera e lo lascio fuori? E se lui mi denuncia e va proprio dal commissariato a lamentarsi? Ho commesso lo sbaglio di raccontare i dettagli a un giornalista complice e come risposta ho ricevuto un blitz della N.A.S. (Nuclei Antisofisticazioni e Sanità dell’Arma), i quali hanno messo a soqquadro il bar trovando tre mozzarelle quasi scadute. Duemila euro di multa, proprio nei giorni in cui mia madre stava morendo. Sto pagando salato la mia solidarietà: questa scelta mi ha fatto scoprire tanta merda, ma anche tanta gente bellissima. Resto dell’idea che il commissario dovrebbe multare i baristi che fanno pagare 1.50 o 2 euro il caffè ai ragazzi o che non gli permettono di sedersi nei tavolini esterni”. Delia è stata ribattezzata Mama Africa dalle tante anime che ciondolano, dormicchiano, passano il tempo nelle stanzette deserte del locale. “Coloro che aiutano quando il sindaco stesso vieta di fornire sostegno alimentare ai migranti senza documenti, pena l’identificazione e una multa di 200 euro (nel testo viene sottolineato che verrà colpito dall’ordinanza chi agisce per mera solidarietà), sono veri angeli. Questa è l’Italia che non si gira dall’altra parte, che non vede differenza tra bianco e nero. La nostra terra è di tutti e di nessuno. Non ho più fiducia nelle istituzioni, la mafia è dentro lo Stato, eppure pretendono di insegnarti la legalità, il rispetto, ma se mi trovo così è per colpa loro. Chissà chi ci sarà dentro quel bar? Pensavano i passanti, vedendo i blitz in atto. Tutta cattiva pubblicità, ahimè, ma non rimpiango la mia scelta”. Proseguiamo nella conversazione, mentre le onde del mare schiaffeggiano la battigia e gli anziani attendono la corriera che collega Ventimiglia a Pigna, nella parte montana dell’alta val Nervia. “Vanno perché non c’è scelta. Ripenso a Betti, filippina, che lavorava dalle 17.00 alle 9.00 come badante per 45 euro. È un lavoro faticoso cambiare, pulire, nutrire un anziano invalido. Le frotte di sudanesi che dal 2003 vivono in campi profughi gestiti dall’UNHCR, il dramma del Darfur. Passa di tutto dentro queste mura. E l’Europa sbatte la porta in faccia anche ai minori. Se sapessero la storia del quindicenne Abasi, per esempio, costretto dallo zio a frequentare una scuola coranica dove l’hanno picchiato, seviziato, ustionato. Un mese di carcere in Libia, chissà cosa è successo là dentro… Poi la traversata, solo per studiare e diventare ingegnere, ti rendi conto? Quindici anni. Da poco ha raggiunto Parigi, dove ha richiesto i documenti e avrà accesso a una borsa di studio. Abasi sarà uno dei prossimi esempi di rivalsa”.
Serena Regazzoni, operatrice Caritas, mi attende al piano superiore dell’edificio. “Da quando hanno sgomberato il campo delle Gianchette è difficile intercettare i ragazzi; la nostra fortuna è quella di essere vicini alla stazione ferroviaria, una tappa obbligatoria che ci rende un osservatorio privilegiato rispetto ad altre associazioni. Lo scorso anno sono passate di qua 23.000 persone. Dal 2015 gran parte sono stati sudanesi. Nel 2017, a dicembre, il flusso è diminuiti dell’80%, ma appena è ripreso sono giunti maggiormente migranti dal Corno d’Africa, eritrei soprattutto. Nel febbraio 2018 sono passate 1.542 persone, di cui il 12% composto da donne e bambini e il 25 percento da minori non accompagnati. Forse aumenteranno di nuovo, ma non sarà mai come nel 2015. Nel 2016, in inverno passavano trecento persone al giorno, d’estate raddoppiavano. I politici non si stanno indirizzando verso l’apertura dei confini, dunque gli sbarchi diminuiscono. È un ciclo continuo di interessi e soldi che provengono e tornano nelle tasche dell’Europa. Le tariffe per i viaggi nel deserto e in mare toccano l’apice di 10.000 euro con la tratta eritrea. Abbiamo preso parte a un corridoio umanitario che ha permesso a una famiglia di Asmara di lasciare la baraccopoli di Mai Aini nella regione etiope del Tigray”. Bilanciamo date, statistiche, numeri, memorie. Anche le ferrovie francesi (SNCF) si sono attivate con manifesti e avvisi urgenti, dopo aver ritrovato più volte i corpi folgorati, schiacciati, malmessi dei clandestini. Uno dei pieghevoli mostra un ragazzo nero nell’atto di attraversare i binari con aria impaurita, la sagoma di un treno in corsa alle spalle. Sur le voies, le train arrive trop vite pour être entendu. La seconda figura è un uomo che prende la scossa sopra il tetto del convoglio. Sur le toit d’un train, les files életriques peuvent tuer meme sans être touchés. Serena sciorina una lista delle morti registrate. La prima è avvenuta l’8 ottobre 2016, Milet, schiacciata da un camion in autostrada. Il 23 ottobre se ne va Abdul, annegato nel fiume straripato dagli argini. Il 21 marzo tocca ad Amir, scivolato dal cosiddetto sentiero della morte. Il 24 maggio viene rinvenuto un corpo spappolato tra i macchinari della vettura a Cannes. Il 13 giugno 2017 affoga Amara, mentre tenta di recuperare una scarpa finita nella foce del fiume Roja. E così via. Curiosa questa Europa che riempie le dispense Caritas di cibo, ma non tutela chi siede al banco degli affamati.
Dal 31 maggio al 14 agosto, in quei 440 giorni d’accoglienza dentro al quartiere Reverino, sono state accolte tredicimila persone, 2.340 donne, 10.660 uomini di cui 650 bambini e bambine sotto ai tredici anni. I minori non accompagnati, tra i quattordici e i diciassette anni, provenivano da cinquanta paesi diversi, in prevalenza Sudan (47%) ed Eritrea (14%). Numero pasti consumati: centocinquantamila. Don Rito è visibilmente fiero di aver accolto migliaia di musulmani nel cortile di una chiesa cristiana. Come scintille d’intimità, la notte, i migranti islamici pregano rivolti verso La Mecca, la testa china sulla nuda terra, sulla sabbia o tuttalpiù su una stuoia rammendata con ago e filo. I flash delle utilitarie e le lucine azzurre della polizia appostata sui margini battono il ritmo dell’oscurità, che odora di gasolio e asfalto rovente. Ritrovo qua e là muri parlanti e scritte rosicchiate: stop war against migrants. E, lì a fianco: only italian writers here. Due fratelli siriani sono stati separati malamente al confine. Il più piccolo, Imam Aldi, ha perso il cellulare mentre guadava un fiume in Slovenia e non può comunicare col fratello maggiore, Amir Aldi. Provengono da Damasco. “La gendarmeria francese – dice Imam mentre perlustriamo la città cercando il fratello – mi ha detto che se mi fossi dichiarato minorenne mi avrebbero spedito in un ghetto. Mi sono allora dichiarato maggiorenne, ma dopo avermi trattenuto dodici ore mi hanno rispedito indietro senza spiegazioni”. Inaspettatamente ritroviamo Amir nei pressi del bar Hobbit; il fratello maggiore, capogruppo, rifila un buffetto al fratello, poi racconta, dimostrando una ricezione e conoscenza più alta della media. “Il regime di Assad, dall’inizio della guerra nel 2011, ha introdotto la leva obbligatoria per i giovani sotto i trent’anni, lasciandoci la possibilità di due scelte: imbracciare un fucile o scappare. Così abbiamo fatto, anche se mio fratello avrebbe voluto concludere gli studi. La situazione in Grecia mi ha scosso. Sono stati creati centri di reclusione che non sono altro che campi militarizzati. L’UNHCR è fisicamente presente in questi campi ed è di fatto complice di questa disumanizzazione, a mio parere. So che Medici Senza Frontiere, ad esempio, non ha accettato di occuparsi della parte sanitaria di queste strutture, per cui, in questi centri, è presente solo la Croce Rossa greca con un contributo del tutto insufficiente. Non dispongono di un reparto pediatria, per cui i genitori devono accompagnare i bambini dal medico più vicino, distante minimo due chilometri di cammino e pagare venticinque euro. Le domande di asilo politico possono essere presentate unicamente via Skype, in campi senza internet; se non chiami quando devi, se non ti connetti, sei fuori dai giochi. Mi sono informato anche sull’accordo UE-Turchia. Erdogan ha ricevuto sei miliardi di euro a patto che garantisca la deportazione di quasi tutti i profughi che sono riusciti a raggiungere l’Europa illegalmente. Ciò significa anche bloccare le imbarcazioni nel mar Egeo. Hanno cominciato le deportazioni poco prima che passassi in Macedonia: duecento persone provenienti da Iraq, Pakistan, Siria, Bangladesh sono state prelevate e rispedite oltre il confine. Non li stanno riportando nel loro Paese d’origine ma in territori non sicuri”. Finirà quando non ci sarà più nulla da guadagnarci.
Delia pulisce il lavandino a colpi di spugna, ogni tanto sorride. Sugli scalini del bar è seduto un giovane con la testa tra le mani. Majid è il nome del ragazzo, ha ventiquattro anni compiuti da poco, proviene dal Darfur. “La crisi in Darfur è iniziata con il deflagrare del conflitto fra i ribelli della regione occidentale del Sudan e l’esercito di Khartum, il 26 febbraio del 2013. Il governo sudanese non si è limitato agli attacchi militari contro il Sudan Liberation Army, ma ha esteso l’azione repressiva nei confronti di tutta la popolazione del Darfur: oltre 400.000 morti, 2.800.000 sfollati, di cui solo un milione ha fatto rientro nelle aree pacificate. La situazione per i profughi è più disperata che mai. Il campo in cui vivevo è un’immensa distesa di capanne e baracche nella vastità del deserto, che da Nyala di estende fino ai confini con il Sud Sudan. La crisi umanitaria del mio paese resta tra le più gravi del mondo, ma è ormai dimenticata da tutti. Era come vivere in ostaggio. Se denunciavi o dicevi la tua, il governo ti ammazzava. Mio padre è stato ucciso nel 2006. Ho lasciato due fratelli nel campo dell’UNHCR. Mia madre se ne è andata con un cancro quando io ero già in Libia, dove sono rimasto un anno. Ho lavorato coi camion, trasportavo sacchi di zucchero lungo la strada tra Misurata e Tripoli. Vorrei studiare biologia, ma non ho nessun contatto in Francia. Sono solo. Non ho nemmeno i soldi per comprarmi un cellulare”. Youssef, un’altra figura saltuariamente reperibile nel bar di Delia, ha scelto la rotta inversa rispetto a quella di Majid, la cosiddetta nuova rotta della diaspora eritrea. È uno di quelli che alla morte in mare e alle torture della polizia libica ha preferito lo Stato di Israele. “Siamo entrati in Egitto via terra, dal Sudan. Una volta a Il Cairo, gli intermediari hanno organizzato i viaggi e ci hanno nascosto nei camion fino a Ismailia, nel nord, dove siamo stati smistati. Un po’ hanno raggiunto Al-Arish, altri Rafah. Da queste città partono i fuoristrada diretti alla frontiera israeliana nel deserto del Sinai.Una volta nei pressi della barriera di filo spinato alta un metro, siamo stati abbandonati a noi stessi. Abbiamo continuato a piedi in attesa di essere intercettati dall’esercito israeliano. Ma ben presto quel luogo si è rivelato più pericoloso di quanto non potesse sembrare in un primo momento. Una banda di delinquenti ci ha attaccato, derubandoci dei pochi averi. Ho opposto resistenza, ma per vendetta mi hanno tagliato un dito con un coltello. – racconta l’uomo, mostrando il moncone dell’indice destro – Eppure, dopo lunghe peripezie, sono qui. Passeremo prima o poi. Dobbiamo passare, occorre avere pazienza. Si è creato un tappo, ma quando esploderà, passeremo anche noi”. C’è al mondo qualcosa di più profetico di esodi che spezzano i confini farlocchi del Potere?
Matthias Canapini

Matthias Canapini è nato nel 1992 a Fano. Viaggia a passo lento per raccontare storie con taccuino e macchina fotografica. Dal 2015 ha pubblicato "Verso Est", "Eurasia Express", "Il volto dell'altro", "Terra e dissenso" (Prospero Editore) e "Il passo dell'acero rosso" (Aras Edizioni).