Soltanto le montagne non si incontrano

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Foto: M. Canapini ®

Il pulmino di linea procede piano nell’alta valleAl terzo tornante lampeggia una scritta rossa sul guardrail: no borders. Percorro a piedi gli ultimi cento metri che mi separano dalla piazzetta di Claviere, a circa duecento passi dalla dogana. Sull’altro lato del marciapiede, di fronte a un panificio chiuso per ferie, Ousmane, giunto in Italia un anno fa, scruta le montagne affilate e mastica qualcosa tra i denti. Prende una lieve discesa sulla sinistra e scompare dentro un sotto-chiesa semibuio, colmo di piumoni, sacchi a pelo, materassi, pentolame, post-it, qualche chitarra. Quasi tutte le persone presenti si stringono nelle spalle, intirizzite, o pregano in qualche angolo, o pianificano il viaggio prendendo agganci qua e là. Ginevra raggiunge Claviere ogni dieci giorni, facendo la spola con Torino. Tranquillizza, indica, consiglia. E racconta, soprattutto: “Ultimamente queste montagne si sono ritrovate a essere un luogo di passaggio per migliaia di persone che, per il solo fatto di non avere il giusto pezzo di carta, si ritrovano obbligate a camminare per ore nei boschi, tentando di eludere i controlli. Ho visto cambiare un paesino come Claviere in poco tempo. Un paesino che vive di turismo e che ora viene attraversato da migranti e militari. Abbiamo occupato il locale sottostante la chiesa perché non c’era altra soluzione, perché un luogo in cui non si è costretti a mostrare i documenti non esistevaChez Jesus è un rifugio autogestito. Un luogo in cui chi viene costantemente minacciato perché senza documenti può sentirsi al sicuro. Facciamo delle raccolte di solidarietà per pagare le spese vive. Non prendiamo finanziamenti. Nessuno viene pagato. Nessun migrante paga per fermarsi qui. Ci teniamo a smentire qualsiasi altra voce. Intanto la persecuzione poliziesca non ferma alla frontiera, i migranti continuano a subire violenze e vengono respinti. Di fronte a questa realtà abbiamo deciso di agire perché è impensabile restare senza fare nulla. Un semplice sorriso all’arrivo, un aiuto materiale, ogni gesto è importante per combattere le politiche razziste e xenofobe dei governi europei. In questo momento storico, dove il razzismo si fa più forte, l’Italia chiude i porti e l’Europa finanzia i campi di concentramento nel Nord Africa, ci sembra importante agire contro l’odio che identifica l’immigrato come il colpevole di tutti i mali politici ed economici. La solidarietà diretta che vive dentro Chez Jesus va contro ogni tentativo di gestione e controllo; uno spazio dove le persone possono scegliere in autonomia cosa fare e dove andare. Chez Jesus è nato a Claviere perché Claviere è in frontiera”. Due passerotti si accucciano sullo schienale di una sedia pieghevole. Il rumore dei passi sul selciato anticipa Beka, un ragazzo guineano che stringe nel pugno un foglio di via. Il suo foglio di via, elargito dalla gendarmeria pochi minuti fa. Il pezzo di carta già divampa, si sgretola tra le fiammelle fioche delle braci. “Cette pièce de papier c’est inutile comme la frontière”. Respinto seicento secondi fa, Beka non molla; ricava dei guanti da un paio di calzettoni lanosi, estrae una mappa dalla tasca del piumino. Le spanne delle mani misurano i chilometri da percorrere. Mani nodose, mani rovinate, mani di dottore e di bambino. Soli, a gruppetti, di giorno o di notte confabulano, creativi, sul terno al lotto che li attende. Redemption Song distende le membra stanche.

Bakarì ha ventinove anni, una moglie e due bambini piccoli, Elassè e Douda, oltremare. I dolori alla schiena sono frutto delle bastonate prese a Sabha, una fortezza nel deserto libico detta “Il ghetto di Alì”, in cui Bakarì ha trascorso tre mesi. “Come mai hai deciso di partire?” domando. “Ho studiato lettere e filosofia all’università di Lagos, entrando poco a poco nel mondo della politica; ma se fai politica in Africa, specialmente nei ranghi dell’opposizione, rischi concretamente la vita e, se la polizia ti cerca a casa, è per ammazzarti. Spontaneamente ho sostenuto alcuni militanti e simpatizzanti dei Popoli indigeni del Biafra (Ipob), i quali hanno organizzato una seria di proteste, marce e riunioni per sollecitare la creazione di uno stato biafrano. Le forze di sicurezza della Nigeria, sotto il comando dall’esercito, hanno condotto una spietata campagna di esecuzioni extragiudiziali e atti di violenza che, dall’agosto 2015, hanno causato la morte di almeno centocinquanta attivisti pacifici pro-Biafra nel sud-est del paese. Malgrado tutto, non ho paura di morire, ho sofferto e visto brutte cose. Sono approdato a Messina e queste montagne non mi spaventano. Sono grato al governo italiano di avermi salvato la vita nel Mediterraneo”. Quando cala il buio primordiale, una fetta d’Africa si mette in moto: maglione sopra il giaccone imbottito, doppia sciarpa, coperta sulle spalle, tre paia di calzetti. Il resto è in bocca al lupobonne chancebe careful. Nel primo gruppetto in partenza c’è Bakarì, ma nel sottobosco illuminato debolmente dai lampioni, sono due occhi gonfi e un naso a patata ad attirare il mio sguardo incantato. Il viso di Lamalie, sedici anni, maliano, parla più di mille parole: se dovessero respingermi, sembra dire, ci proverò ancora, ancora e ancora. La frontiera ufficiale è posta trecento metri più in basso; la bandiera dell’Europa sventola sotto il fascio di luci artificiali. Le sagome tra pini e abeti bianchi potrebbero sembrare tronchi, rocce, bestie d’altura, ma sono esseri umani in cammino, con nessuna torcia a guidarli, inghiottiti da montagne nere mai viste prima. Col sonno che brucia gli occhi e fiacca il fisico.  

Dormiamo appiccicati, materasso contro materasso, spalla contro spalla, ronfi, gemiti, imprecazioni come contorno a un’accoglienza vera, necessaria, sul limite. Il migrante è un uomo in attesa, per certi versi un uomo a metà: il corpo nella sospensione dello spazio, la mente protesa al futuro. Dicotomia per antonomasia, la frontiera, che su un cartello recita benvenuti e poco oltre arrivederci. Ma nella distanza che intercorre tra i saluti, qui vi è spazio per un’altra dicitura, ben più ampia e terrena, posto sul muro laterale che anticipa la dogana: la frontiera uccide. Scaldando le mani attorno a una tazza di the, presto nuovamente ascolto alle parole di Ginevra. “Ci abbiamo provato tutto l’inverno a evitare che accadesse questo. Ci abbiamo provato nella neve, portando scarpe e giacche, zuppe e tisane. Tempo, attenzione, cura, ascolto. Ci abbiamo provato spiegando cosa sono le slavine, e ospitando a casa chi non aveva un posto dove stare. Ci abbiano provato aprendo i portoni che volevano restare chiusi e caricandoci in macchina chi rischiava di restare congelato. Qualcuno ci ha aiutato: pochi. I governi preferiscono avere dei clandestini da ricattare per fare la guerra tra poveri e vincere le elezioni giocando sulle paure. Le ferrovie hanno chiuso le sale d’aspetto. Chi ha mostrato la solidarietà è finito sotto processo e rischia dieci anni di carcere e 750.000 euro di multa. Gli elettori hanno dato forza alle leggi italiane, francesi ed europee che vogliono chiudere l’Europa dentro la sua inutile e stupida fortezza, votando ovunque, a larga maggioranza, per partiti che dell’odio contro il diverso e lo straniero ne hanno fatto dogmi. Ci abbiamo provato a evitarlo, ma non ci siamo riusciti. La frontiera uccide, è vero. La militarizzazione è la sua arma. Una ragazza nigeriana di ventuno anni, Blessing, è morta. Il cadavere è stato ritrovato mercoledì scorso all’altezza della diga di Prelles, nella Durance, il fiume che scorre sotto Briançon. Fino a poche ore fa era solo una donna dalla pelle nera. Nessun documento, nessun appello alla scomparsa. Un corpo senza vita e senza nome, come le migliaia che si trovano sul fondo del Mediterraneo. Questa morte non è una disgrazia inaspettata, non è un caso. Non c’entra la montagna, né la neve o il freddo. È una conseguenza inevitabile della politica di chiusura. Questa morte non è una fatalità, è un omicidio. Gendarmi, polizia di frontiera, chasseurs alpins e i neofascisti di Géneration Idéntitaire pattugliano i sentieri e le strade a caccia dei migranti di passaggio. Li inseguono sui sentieri e nella neve a bordo delle motoslitte. Blessing, per continuare la sua vita, ha dovuto attraversare quella linea immaginaria che chiamano frontiera. Perché i mezzi di trasporto, sicuri, le erano preclusi per la mancanza di documenti. È scesa sulla strada e ha percorso a piedi diciassette chilometri per raggiungere la città. È lungo quel tratto che deve essere incappata in un blocco della polizia, come spesso viene raccontato dalle persone respinte. Probabilmente il gruppo di persone con cui si trovava si è disperso alla vista delle autorità, nel solito gioco dell’oca che questa volta ha ucciso. Blessing deve essere scivolata nel fiume mentre tentava di scappare e nascondersi. L’autopsia avverrà a Grenoble nella giornata di lunedì, solo allora sarà possibile avere maggiori dettagli sulla causa della morte, ma una cosa è certa: la frontiera separa e ammazza. Non dimentichiamo chi sono i responsabili”.

Corpi di uomini, donne e bambini si scuotono nella polvere del soppalco. L’aria del mattino è pungente. Conosco Mamoud, detto Memè, ventiquattro anni. Senegalese originario di Dakar, Memé ha spalle da rugbista e zigomi alti e levigati. I grandi pini oscillano, le nuvole si muovono rapide come la danza degli storni in autunno. “Dopo la morte di mio padre ho ereditato solo debiti che mi avrebbero portato in carcere, o peggio. Sono partito per cercare il mio destino. Viaggiare ti apre la mente; ho conosciuto gente da tutta l’Africa lungo la rotta del Niger. In Libia mi hanno appeso alle travi del soffitto e bastonato forte, di notte non chiudevo occhio per le cimici. Niente cibo né acqua per due giorni. Mi facevano giusto annusare un bicchiere per poi gettarla. Una vera tortura! Sono scappato, ho raggranellato qualche soldo in nero e mi sono imbarcato per l’Italia senza pensare al domani. Ora sono diretto in Francia dove vorrei sposarmi, fare dei figli, lavorare e tornare un giorno in Senegal per comprarmi una casa tutta mia, ampia e bella. È la vita, ma la mia vita non la auguro a nessuno, perché quando emigri anche i lutti vengono annunciati per telefono, ed è la cosa peggiore. Il non poter andare, il non poter tornare. For now, my life is everywhere. Nell’arco di cinque giorni sono stato respinto tre volte. Ho tentato sempre di notte, oggi proverò dopo pranzo. È vero che l’oscurità ti nasconde, ma loro sono tanti e hanno cannocchiali e pile elettriche. Con la luce magari mi lasceranno perdere, chissà”. Chissà cosa ti balena in testa quando sai di dover percorrere una strada su cui altri hanno perso la vita? Lascio Memè al suo rituale: riempire lo zainetto di biscotti, un tubetto delle Pringles, due bottigliette d’acqua minerale. Nel cortile abbaia Gayò, un cane divenuto leggenda. Vengo a sapere dal padrone, un certo Bastien che vive a Chez Marcel, che una notte il quadrupede, non solo si è aggregato a un gruppo di migranti, ma li ha pure condotti fino a Briançon sani e salvi. Ha dormito un giorno intero con la lingua a penzoloni prima di far ritorno a Claviere in tre ore scarse di galoppata. 

Matthias Canapini

Matthias Canapini è nato nel 1992 a Fano. Viaggia a passo lento per raccontare storie con taccuino e macchina fotografica. Dal 2015 ha pubblicato "Verso Est", "Eurasia Express", "Il volto dell'altro", "Terra e dissenso" (Prospero Editore) e "Il passo dell'acero rosso" (Aras Edizioni).

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