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Kenya con il fiato sospeso in vista delle elezioni generali
Riconciliazione
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Il Kenya è il paese chiave dell’Africa orientale e una delle nazioni decisive per tutto il continente. Quello che succede a Nairobi fa scuola. Prove di democrazia, conflitti etnici e sociali, strategie internazionali, lotta per la sopravvivenza e tensione vorticosa per il futuro: tutto questo passa per il Kenya. E anticipa i tempi. Cade, si rialza, ma procede verso lo sviluppo, pur tra mille contraddizioni. Si può dire che il paese ha imboccato la via verso la democrazia nel 1997 ma la prova del fuoco si ebbe nel 2002 quando, in seguito ad elezioni giudicate regolari, il potere passò senza spargimento di sangue dalla storica coalizione di governo – in sella dall’indipendenza del 1963 – all’opposizione. Un fatto molto raro in Africa. Ma nei mesi successivi alle presidenziali del 2007 il Kenya fu sull’orlo della guerra civile, scosso dalla rivalità tra il presidente (rieletto) Kibaki e lo sfidante Odinga: dopo tumulti in tutto il paese che lasciarono più di mille morti, i due si accordarono per un governo unitario che pacificò la situazione e diede al Kenya una nuova – e democraticamente innovativa – Costituzione.
Si arrivò a questi inattesi e positivi risultati grazie all’impegno di molti protagonisti, dalle ong ad alcuni esponenti religiosi “illuminati”, cristiani e mussulmani. Nella provincia di Nyahururu, dove ha sede il centro Saint Martin, venne organizzata una grande marcia nonviolenta per chiedere la riconciliazione tra le etnie e l’accoglienza degli sfollati in seguito agli scontri: un’azione, ignorata dai media occidentali, capace di unificare le diverse sensibilità e dimostrare quanto una via pacifica sia la soluzione migliore.
A livello economico, secondo i dati dell’World economic outlook (consultabile in formato .pdf) dell’ottobre 2012, il Kenya è riuscito brillantemente a resistere alla crisi economica globale, anche se gli indicatori dello sviluppo umano restano bassi con una povertà che si aggira intorno al 50%. Sappiamo che il PIL da solo non dice nulla, ma colpisce che nel 2008 – a seguito degli avvenimenti dell’anno precedente – era calato dal 7% al 1,5% per poi assestarsi negli anni successivi intorno al 5%, in linea con la media dell’Africa sub-sahariana.
Insomma balza agli occhi quanto una crisi politica incida sull’economia e quindi sulla vita quotidiana delle persone. Oggi, a due mesi dalle elezioni presidenziali, politiche e amministrative previste per il 4 marzo prossimo, il clima è teso: si fronteggiano nelle urne il presidente uscente Kibaki e Uhuru Kenyatta, già ministro delle finanze e ora vice primo ministro, pesantemente sospettato di aver fomentato gli scontri di 6 anni fa. Elezioni in stile occidentale (quanto all’utilizzo della Rete i kenyoti potrebbero insegnarci molto), segnate però ancora dall’esplosione di violenze. Se il presidente invita gli universitari a concentrarsi sugli studi invece che dedicarsi alle manifestazioni politiche, nelle province si susseguano gli scontri, causati sia da ragioni etniche sia economiche.
Nella zona costiera del Tana river ci sono stati nei giorni scorsi 7 morti in tumulti “etnici” tra Pokomo e Orma. L’agenzia missionaria Misna cerca di capire le ragioni sostanziali degli scontri: “Dietro questi massacri ci sono aziende che puntano allo sfruttamento dei terreni, per coltivazioni intensive di canna da zucchero e biocarburanti” ha denunciato il responsabile della contea, Gure Golo, secondo cui “a soffiare sul fuoco delle divisioni tribali sono personaggi senza scrupoli, che avrebbero molto da guadagnare dalla vendita o l’affitto dei terreni ad investitori stranieri. Le violenze, secondo questa lettura dei fatti, sarebbero provocate ad arte per spingere gli abitanti ad abbandonare i villaggi e poter procedere con programmi di coltivazione intensiva senza incorrere nell’opposizione delle popolazioni locali”. Anche nella diocesi di Nyahururu si segnala una vittima. L’accaparramento della terra da parte di paesi emergenti (Cina e paesi della penisola arabica in prima linea), la povertà diffusa, le mire espansionistiche delle multinazionali, il delicato mosaico etnico e religioso, la democrazia fragile che muove i primi passi, solo ulteriori fattori di destabilizzazione.
Intanto le elezioni potrebbero giocarsi anche nelle aule dei tribunali: la Corte Suprema deve ancora pronunciarsi sulle regole che dovrebbero dirimere in un modo pacifico e legale eventuali (ma sicuri) ricorsi post voto. Le contestazioni al risultato potrebbero dare la stura a un nuovo ciclo di violenze come nel 2007. Una situazione da tenere d’occhio.
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