La Francia pagherà per gli esperimenti nucleari realizzati in Algeria?

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Il 13 febbraio 1960 fu detonata dalla Francia nel Sahara algerino una bomba atomica: era la cosiddetta “Gerboise bleue”, dal nome del “topo delle piramidi” e dal colore simbolo della nazione. Con circa 70 kilotoni e una deflagrazione a 100 metri di altezza, è stato il più potente dei test nucleari effettuati dalla Francia nel deserto del Sahara: la sua esplosione contaminò una zona di 150 chilometri di diametro e si calcola che toccò direttamente circa 1000 beduini nomadi e 10mila persone della base, tra militari, tecnici e inservienti. La “prova” nucleare, effettuata nel pieno della guerra algerina, consegnò la Francia alla storia come la quarta potenza atomica del mondo, dopo Stati Uniti, Unione Sovietica e Regno Unito. 

Negli anni successivi e fino al 1966, nonostante la proclamazione dell’indipendenza dell’Algeria nel 1962 a seguito degli accordi di Évian, la Francia condusse nel sud dell’Algeria altre 16 esplosioni nucleari, sia nell’atmosfera sia sotterranee. A Reggane e In Ekker, le bombe furono fino a sette volte più potenti di quella sganciata su Hiroshima nel 1945: le conseguenze furono apocalittiche allora e oggi. È per gli ingenti danni umani e ambientali, ancora oggi “ereditati” dalla popolazione algerina, che recentemente il Consiglio della Nazione algerino ha approvato una legge per obbligare la Francia a bonificare le aree dei test nucleari. Si calcola che i 6 anni di test nucleari uccisero 42mila algerini e molti altri (migliaia di persone) vennero colpiti dalle radiazioni sviluppando diversi tipi di tumori a seno, tiroide, ghiandole, ossa, stomaco. Resta, inoltre, ancora insoluto il problema delle scorie nucleari sepolte nel deserto che si stima siano circa 100mila tonnellate di materiali; peraltro la Francia rifiuta ancora oggi di rivelare l’ubicazione esatta dei siti di stoccaggio in virtù del segreto militare.

In un'intervista storica rilasciata lo scorso ottobre al quotidiano francese L’Opinion, il presidente algerino Abdelmadjid Tebboune aveva dichiarato: “La decontaminazione dei siti di test nucleari non è negoziabile. È un imperativo su tutti i livelli—umanitario, etico, politico e militare. Se questioni simili sono state affrontate con americani, russi, indonesiani e cinesi, allora l'Algeria deve esigere lo stesso dalla Francia”. Ad esempio, già 50 anni fa, i test nucleari francesi, in questo caso nel Pacifico, erano stati oggetto dell’attenzione della Corte Internazionale di Giustizia: il 9 maggio 1973, Australia e Nuova Zelanda portarono la Francia dinanzi al Tribunale dell’Aja per fermare i test nucleari atmosferici nel Pacifico. Parigi contestò la giurisdizione della Corte e non partecipò al processo. Il 22 giugno, la Corte ordinò misure provvisorie per prevenire ricadute radioattive e pochi mesi dopo, ritenendo l’obiettivo raggiunto a seguiti dell’impegno francese a cessare i test, la Corte archiviò il caso.

Oggi a scendere in campo a tutela delle vittime e per quello che ritiene un “crimine contro l’umanità” è l’avvocata e storica algerina Fatima Zohra Benbraham, in quanto tale crimine comprende atti inumani come la sperimentazione forzata sugli esseri umani. In un’intervista con L’Expression.dz, l’attivista argomenta “Ciò che è accaduto in Algeria non è stato solo una serie di cosiddetti ‘test’, ma un deliberato utilizzo di esseri umani come cavie. Intere popolazioni abitavano queste zone molto prima della prima detonazione nucleare del 13 febbraio 1960 a Reggane. Migliaia di algerini furono inconsapevolmente esposti a radiazioni letali, alcuni furono usati come soggetti sperimentali per studiare gli effetti dell’esposizione nucleare. Crimini di questa portata rientrano nella classificazione giuridica di crimini contro l’umanità e sono imprescrittibili”. La svolta nelle indagini su quanto accaduto arrivò nel 2005 quando il presidente francese Nicolas Sarkozy revocò parzialmente il segreto su alcuni archivi relativi ai test nucleari e, successivamente, nel 2014 il presidente François Hollande ammise pubblicamente per la prima volta che ciò che era accaduto in Algeria non erano semplici test, ma vere e proprie esplosioni nucleari. 

Ciononostante ancora oggi la Francia non solo rifiuta di riconoscere l’entità del danno inflitto all’Algeria ma continua a trattenere informazioni fondamentali quali le mappe precise che indicano i siti di sepoltura delle scorie nucleari, che rimangono documenti classificati. Una questione che si inserisce nella scia del deterioramento delle relazioni algero-francesi a seguito del sostegno espresso da Parigi per il piano “autonomistico” del Sahara Occidentale all’interno del Marocco. Dalla vicenda dell’oppositrice Amira Bouraoui rifugiatasi a Parigi, al caso del tiktoker algerino di Montpellier espulso dalla Francia perché accusato di gravi minacce contro oppositori del regime algerino, ma subito rispedito indietro verso Parigi dalle stesse autorità di Algeri, fino all’incarcerazione a fine novembre dello scrittore Boualem Sansal: Parigi e Algeri appaiono ai ferri corti sulla base di un passato tragico ancora insoluto.

Miriam Rossi

Miriam Rossi (Viterbo, 1981). Dottoressa di ricerca in Storia delle Relazioni e delle Organizzazioni Internazionali, è esperta di diritti umani, ONU e politica internazionale. Dopo 10 anni nel mondo della ricerca e altrettanti nel settore della cooperazione internazionale (e aver imparato a fare formazione, progettazione e comunicazione), attualmente opera all'interno dell'Università degli studi di Trento per il più ampio trasferimento della conoscenza e del sapere scientifico.

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