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Sarebbe meglio se ci prendessero a sberle da subito
Conflitti
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Questa è l'ultima di tre interviste di approfondimento in occasione della Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne. Abbiamo raccolto tre testimonianze, tre punti di vista, tre prospettive: Giulia Morello dalla società civile, Paola di Nicola Travaglini dal mondo giudiziale, ed infine, una Sopravvissuta. Oggi parla quest’ultima.
Raccontaci la tua storia.
Inizio a frequentare un ragazzo nell’estate 2016 nella mia città natale; fin da subito faccio presente che non sono in cerca di una relazione. All’epoca conducevo una vita nomade ed avevo intenzione di ripartire; lui palesa la sua volontà di volermi seguire nel viaggio. Io all’inizio sono abbastanza dubbiosa; scopro anche che sta preparando i documenti per viaggiare a mia insaputa. Insiste che vuole viaggiare con me. Accetto, ma in modo chiaro faccio presente che se le cose non vanno, ognuno per la propria strada.
Quindi partite insieme.
Sì, lui riesce a convincermi in questa cosa, io cambio in parte i miei piani di viaggio. A novembre 2016, quando salgo sull’aereo e mi ritrovo nel mio ambiente, mi rendo conto che avevo preso la decisione sbagliata, e che non volevo viaggiare con lui. Glielo spiego; lo rassicuro dicendogli che rimarrò con lui un paio di settimane per aiutarlo ad ambientarsi – era la sua prima esperienza di questo tipo e mi dispiaceva.
Cosa succede a quel punto?
Lui sclera. Mi fa scenate, piange, dice che lo sto facendo soffrire e inizia a giocare sui sensi di colpa. Viene fuori che era partito senza bancomat né carta di credito. Io mi sento estremamente in colpa, perché comunque se lasci qualcuno il cattivo della storia sei tu. Quindi lo aiuto nel capire come farsi mandare ciò che gli serve. Lui inizia a seguirmi ovunque, non mi molla mai. Un giorno che riesco ad uscire da sola dall’ostello lui prende il mio computer e legge le mie mail, scoprendo che avevo cominciato a sentirmi con un mio ex. Da qui le scenate si trasformano, e dai sensi di colpa si passa al ricatto.
Cioè?
A quel punto vuole rovinarmi la vita: comincia a ricattarmi ed a dire che se io lo lascio manderà delle foto intime mie a questo ragazzo. Lì il mio istinto di sopravvivenza ha la meglio, e mi dico: “tentiamo di uscirne con il minor danno possibile”. Assecondo questi comportamenti nella speranza che gli passi. Gli dico che posso anche non sentire più l’altro ragazzo, ma che comunque non voglio stare con lui e che di certo ricattarmi non mi farà cambiare idea. Inizia un clima di pesantezza estrema, dove lui mi addossa tutta la responsabilità del non saper vivere la sua vita in un altro Paese. Ironia, in quel periodo rilascia un’intervista al giornale locale della nostra città dove viene descritto come un grande esploratore. No comment.
Tu come stai in tutto questo?
Io sono in ostaggio, lo sono stata per circa due settimane. Ogni volta in cui non mi mostro allegra e felice con lui, ogni volta che non gli tengo il gioco ritorna la faccia malvagia. Ad un certo punto minaccia anche di scrivere ai miei genitori e ai miei amici. Mi rendo conto che non ho vie d’uscita e che anzi, sto facendo cose che non voglio fare: fingere di essere la fidanzatina felice, perfino avere relazioni intime con lui per il quieto vivere – per farlo stare tranquillo ed evitare i ricatti. La violenza è anche questa: non è che lui mi ha sbattuta al muro e mi ha stuprata, però di fatto io non volevo, ma gli dovevo tenere il gioco sennò sarebbe partito il ricatto. A un certo punto mi rendo conto che sto facendo il suo gioco e che l’unica via d’uscita è andarmene.
E ce la fai?
Sì, per tenerlo buono gli dico che me ne sarei andata un paio di giorni, in modo da riuscire almeno a salire sul pullman. Alla partenza ricordo un gran sollievo.
Ma non finisce qui.
No, tempo due ore lui comincia a mandarmi messaggi con la tiritera del ricatto finché io a un certo punto gli dico di fare quello che vuole: che sia quello che deve essere, ma quanto meno io sono libera. Calcola che sto andando in un altro stato pur di non essere raggiungibile. Allora lui rincara la dose: dice di avere un nostro filmato intimo. È vero, una volta ci eravamo filmati: ma poi avevamo deciso di cancellare il file, lui mi aveva fatto vedere che lo cancellava salvo poi dirmi che in realtà aveva una app che gli salvava anche i file che cancellava dal telefono. Dice che avrebbe mandato tutto alla mia famiglia. A quel punto chiamo mia madre, e le spiego cosa sta succedendo. Lo nascondiamo solo a mio padre perché è malato. A questo ragazzo rispondo che con me ha chiuso, di non farsi più sentire, e lo blocco.
Finisce qui?
Macché. Lui a quel punto comincia a prendere nuovi numeri per poter continuare a scrivermi. Continua a scrivermi mail, varie al giorno: dalla canzone d’amore al “se non torni m’ammazzo”, passando per “guarda che se non torni vengo a cercarti” e approdare a “vengo a cercarti e ti riempio di botte”. Così tutti i giorni, tutti. Chiama una mia amica in Italia chiedendo di me. Mi manda mail dicendo “sto arrivando, so dove sei”. Tanto che io cambio piani ed inizio a spostarmi molto velocemente, non più di due giorni in un posto. Sto malissimo, provo ansia e paura e alla fine decido di denunciarlo per la prima volta. In tutto lo denuncerò due volte all’estero ed una in Italia. Ricordo che nel Paese in cui ero c’era una sezione apposta per i casi di violenza di genere. Contatto anche il centro antiviolenza della mia città in Italia per chiedere consiglio. Mi dicono che lo scopo di queste persone è tenerti legata a loro, cercano sempre una tua reazione; la cosa migliore che si può fare è interrompere qualsiasi comunicazione, e conservare tutto quello che si riceve.
Cosa succede a quel punto?
Io cerco di proseguire con la mia vita, lui continua a scrivermi per un periodo e poi smette. Io poi rientro in Italia perché mio padre peggiora. Non lo denuncio subito perché aveva smesso di scrivermi ed io avevo altro a cui pensare, non volevo mio padre sapesse. Pensavo – erroneamente – che se lo avessi denunciato la polizia lo avrebbe subito avvisato, lui sarebbe tornato alla carica, e mio padre lo avrebbe scoperto in mezzo alla malattia. Quindi lascio stare. Ma lui scopre che sono tornata e comincia a scrivermi dicendo di avermi vista correre. Io mi trovo un lavoro in un bar e lui mi manda un messaggio con scritto che sperava la punizione mi fosse servita; che l’aveva fatto perché le persone devono capire che non devono far soffrire gli altri. Infine lascia intendere che sa dove lavoro. In tutto questo io ho ancora paura ma quello che mi frena è che lui possa avere ritorsioni sulla mia famiglia. Decido comunque di andare a denunciarlo. Siamo a novembre 2017, un anno dopo la nostra partenza.
Quindi lo denunci.
Sì, presentando tutte le chat, le mail, i messaggi. Lui continua a scrivermi; i carabinieri mi dicono di sbloccarlo in modo da salvare i messaggi. Lui continua. Finché a un certo punto, nel novembre 2018 si presenta sul mio posto di lavoro e mi fa una scenata terribile. È sera, al bar ci sono i suoi amici che lo spalleggiano. Non contento, esce dal bar e mi sgonfia le ruote della macchina. Tutto questo viene filmato e c’è un testimone; integro la querela e mi danno la misura cautelare per la quale lui non può più avvicinarsi a me. Passano i mesi, si va a processo. Il giudice consiglia un accordo tra le parti. Io detto le mie condizioni, ovvero l’obbligo di frequentare un corso per uomini violenti ed un risarcimento; in cambio ritiro la denuncia. Ci accordiamo.
E la storia si chiude qui.
Sì, questa volta sì.
Cosa ha funzionato e cosa no, nel tuo caso, a livello di sostegno?
Io ho avuto la fortuna che una delle mie migliori amiche è avvocata, quindi mi sono rivolta a lei. Lei è potuta entrare con me a fare denuncia; se non sei avvocato non puoi, sei da sola. Avere lei lì è stato di molto aiuto mi ha dato la forza di farlo. Lei sapeva i cavilli che io non conoscevo: ad esempio devi chiedere che ti venga notificata l’archiviazione altrimenti non te lo dicono. Perché tu fai la denuncia, loro fanno le prime indagini e da lì decidono se proseguire – e allora mandano la notifica anche a lui – oppure archiviare. Magari la tua denuncia viene archiviata d’ufficio e tu neanche lo sai. Poi bisogna fare attenzione, a seconda del tipo di accusa puoi anche avere solo sei mesi di tempo per denunciare. Ad esempio il fatto che lui mi avesse tenuta in ostaggio non potevano contarlo, perché erano passati più di sei mesi. Altra cosa, io non sapevo che per questa tipologia di reati è previsto che l’avvocato sia pagato dallo stato.
Come ti è sembrata la preparazione da parte delle forze dell’ordine?
Il carabiniere che ha preso la denuncia e che ha seguito il caso era una persona molto sensibile ed ha cercato in tutti i modi di rendere l’esperienza meno difficile per me. Era molto attento con le parole, con piccoli dettagli. Mi chiese se c’erano stati atti di violenza fisica. Io non sapevo, mi ricordavo che c’era stato un episodio in cui ero a fare colazione e lui aveva tirato una sberla alla brioche che avevo in bocca. Io mi ero alzata, lui mi aveva presa per il braccio e non mi lasciava andare. Il carabiniere mi disse questo era un episodio di violenza: ha colpito la brioche per farmi vedere che se voleva poteva tirarmi un ceffone. Anche la minaccia di violenza è violenza. Invece la misura cautelare me l’ha notificata un altro carabiniere, uno di grado superiore; lui lo ha chiamato “il tuo ragazzo”, io sono andata sulla difensiva. Invece di scusarsi, ha rincarato la dose dicendo qualcosa del tipo “beh ricevere attenzioni comunque è piacevole”. Lì mi sono sentita frustrata, come se fossi l’isterica di turno, e alla fine mi sono pure scusata, pensando che se non lo avessi fatto chissà come avrebbe seguito il mio caso. In generale poi la lentezza dei procedimenti: avevo provato un’altra volta a chiedere le misure cautelari ma non mi avevano lasciato, avevano detto che se avevo così paura dovevo andare in una comunità. Mi ricordo questa cosa che devi dimostrare di essere terrorizzata.
Devi dimostrare di essere terrorizzata?
Sì altrimenti vuol dire che tutto va bene. Devi essere tu a dimostrare che sei cambiata e che hai paura. Non si centra l’attenzione sulle chat, i messaggi, le minacce scritte. Ho dovuto presentare il certificato medico, le ricevute dello psicologo, possibili testimoni che dicessero che dopo l’aggressione ho dovuto cambiare gli orari di lavoro perché questo rientra nel cambio di stile di vita causato dalla violenza e questo va bene, è accettato. Se reagisci cercando di vivere la tua vita “normalmente” allora non va bene.
C’è un sistema che ti porta a continuare ad esser vittima.
A me è stato detto chiaramente: tu non sei lo stereotipo della vittima, ma ti devi adeguare. Per come sono fatta caratterialmente mi costa tanto ammettere la vulnerabilità. Io avevo paura, però non volevo cambiare la mia vita per questo, per me quella sarebbe stata la sconfitta. Mi dicevano di accettarlo perché dovevo fare la vittima. Io avevo in previsione di tornare all’estero, avevo trovato lavoro ma poi c’è stato un passo avanti nel processo: se me ne fossi andata non sarei più stata lo stereotipo della ragazza impaurita e quindi ho rinunciato al lavoro. Se non rientri nell’immaginario collettivo della ragazza spaventata, allora la difesa è più complessa.
Adesso ne parli con una certa tranquillità.
Sì, anche se all’inizio non volevo si sapesse, mi vergognavo. Ti senti “quella che fa mille storie per due messaggini”. Poi bisogna ammettere anche che sì, sei caduta nella trappola. È intenso anche come queste persone si trasformano: c’è stato un momento in cui ti trovavi bene e poi è successo tutto questo. Diventa difficile mettere insieme le due immagini. Ti dici che sei scema, che non hai visto arrivare la situazione. E quando lo racconti, senti che ti devi giustificare. Adesso il mio obiettivo è quello di diventare indifferente a tutto questo. C’è voluto tanto per uscire dal suo controllo, ogni suo messaggio mi cambiava la settimana.
Mi hai detto che hai tratto della bellezza da tutto questo.
Quest’esperienza a me è servita, certo avrei preferito fosse declinata in modo diverso. Ne ho tratto qualcosa di buono per trasformare quello che è successo in una guarigione. È stato un grande lavoro di crescita personale con diversi strumenti, un lavoro in profondità su me stessa, la mia visione dell’amore. Ne avevo una visione totalmente sbagliata: se lasci una persona non c’è nessuna colpa, nessuno deve niente a nessuno. Non sei colpevole della sofferenza dell’altro, l’amore va e viene, non ti devi giustificare o tenere per mano la persona. Ma non è la visione dell’amore che ci viene venduta. Adesso ho chiaro come io vedo l’amore, ho tolto strati di patriarcato e maschilismo che erano dentro di me. Quest’esperienza mi ha messo più in contatto coi miei desideri, mi ha dato più forza, ho capito le vulnerabilità su cui lui si è attaccato, adesso le conosco. La forza non è essere invulnerabili che è impossibile, ma sapere quali sono le tue vulnerabilità. Da un lato poi è servito indubbiamente averlo denunciato perché per me era importante il riconoscimento di quello che è successo: non ero io la pazza - perché la manipolazione che lui usava faceva sì che fosse tutta colpa mia. Riconoscere che questa cosa è successa, non dipende da me e non è solo nella mia testa, ha fatto parte del processo di guarigione.
Cosa ti senti di aggiungere?
È importante parlarne, è molto sottile questa tipologia di violenza, non è così immediata. È un’escalation. Sarebbe facile se uno ti tirasse un ceffone al primo appuntamento, ma non è così. Quando uscivamo insieme era il ragazzo perfetto, mi trattava come una regina. Il mostro ha cominciato a uscire quando io non facevo più quello che lui voleva. E poi c’è stata l’escalation. Quindi tu non ti rendi conto di cosa succede, è una manipolazione assurda che si mette in atto, e che si basa sugli aspetti culturali della relazione uomo-donna, una dinamica di potere.
Novella Benedetti

Giornalista pubblicista; appassionata di lingue e linguistica; attualmente dottoranda in traduzione, genere, e studi culturali presso UVic-UCC. Lavora come consulente linguistica collaborando con varie realtà del pubblico e del privato (corsi classici, percorsi di coaching linguistico, valutazioni di livello) e nel tempo libero ha creato Yoga Hub Trento – una piattaforma che riunisce varie professionalità legate al benessere personale. È insegnante certificata di yoga.