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Perché è più facile sconfiggere la mafia che fermare i femminicidi
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Paola di Nicola Travaglini - Foto: Simona Filippini ®
Questa è seconda di tre interviste di approfondimento in preparazione alla Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Abbiamo raccolto tre testimonianze, tre punti di vista, tre prospettive: Giulia Morello dalla società civile e oggi quella di Paola di Nicola Travaglini dal mondo giudiziale. L'ultima sarà la testimonianza di una Sopravvissuta.
A raccontare la prospettiva delle aule dei tribunali la giudice penale del Tribunale penale di Roma Paola di Nicola Travaglini: consulente giuridica per la Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere è anche scrittrice ed autrice di diversi libri sulle tematiche di genere.
Qualche anno fa in un’intervista ha affermato che il femminicidio ha la stessa valenza culturale, sociale e criminale della mafia. Ci spiega?
L’accostamento tra femminicidio e fenomeno mafioso deriva dal fatto che entrambi hanno una matrice culturale ed identitaria; ed entrambi riguardano interi ambiti territoriali e sociali. In questi casi la cifra è data da una relazione di sopraffazione e dominio: da parte degli uomini nel femminicidio, e da parte dei clan di uomini nelle associazioni mafiose. Queste relazioni creano una condizione di totale assoggettamento di chi è sottoposto a questo tipo di rapporto gerarchico e di potere. In entrambi i fenomeni quindi c’è la demolizione della natura libera dell’essere umano ed il basare qualsiasi relazione sulla sopraffazione, il potere, e la violenza. Un altro elemento in comune è l’omertà del contesto sociale e culturale, in cui nessuno ha visto, nessuno ha sentito, nessuno ha capito, e tutto tende a minimizzare ed a ridimensionare l’evidenza della sopraffazione e della violenza. Questi sono i connotati comuni.
E le differenze?
La differenza fondamentale sta nel fatto che la mafia è un fenomeno storico delimitato nel tempo, ha radici più vicine a noi; il femminicidio invece è una realtà storica millenaria. Non ha frontiere, è diffuso più o meno con le stesse modalità in tutto il mondo; non conosce differenze religiose, culturali, etniche, geografiche, economiche. Quindi è molto più facile contrastare la mafia e molto più difficile contrastare il femminicidio e la violenza nei confronti delle donne perché tutti noi – uomini e donne - abbiamo assorbito il sostrato culturale che ne è il fondamento. Questo lo rende un fenomeno invisibile e che permea tutto e tutti, e che quindi è più difficile da identificare e contrastare.
Secondo l’Istat in effetti il numero degli omicidi è diminuito, mentre il numero dei femminicidi si mantiene costante nel tempo.
Sì, è così e non mi aspetto che il numero cali.
In Canada, recentemente, c’è stata la prima accusa di terrorismo a matrice Incel: eppure erano donne uccise in quanto donne, quindi femminicidi. Lei cosa ne pensa?
Mi riservo di approfondire meglio la questione; tuttavia credo nell’importanza del potere di nominazione, nel definire qualcosa per quello che è. È un potere che legittima l’esistenza del fenomeno attraverso l’uso del linguaggio. Cercare modalità differenti è un modo utile per depistare rispetto al focus, e per non interrogarsi sulla matrice culturale che impone invece di cambiare completamento quell’assetto che determina quel tipo di reati. Se questo avviene nel campo del diritto è ancora più grave, perché il campo del diritto ha non solo un ruolo di rappresentazione giuridica di fenomeni criminali, ma anche un ruolo simbolico fondamentale. Se io sostituisco alla parola femminicidio la parola terrorismo, non vedo più il femminicidio.
Andiamo nelle aule di giustizia: lei vede degli schemi che si ripetono?
Si tende a spostare sempre la responsabilità culturale dei fatti criminali dall’autore alla vittima. Questo avviene in maniera costante nei reati di violenza di genere; per cui, invece di concentrare il processo sull’accertamento di un fatto, come avviene per qualsiasi reato, ci si concentra su ciò che ha preceduto oppure su ciò ha seguito quel fatto.
Un esempio?
In una rapina io mi concentro ad accertare esclusivamente come è avvenuta la rapina e il comportamento dell’autore della stessa: aveva armi, di che tipo, portava il passamontagna, era in moto o in macchina, è stato violento nell’esecuzione ecc. Non mi preoccupo di sapere se la persona rapinata la sera è andata in pizzeria o se è andata a portare la nonna in ospedale. Nei casi di violenza contro le donne invece l’attenzione non ruota intorno al fatto ma intorno al comportamento che ha determinato quel fatto e quindi è il comportamento della vittima; la condotta dell’uomo violento è culturalmente ritenuta una reazione più o meno legittima e giustificabile dalla condotta di una donna - che lo ha provocato, che lo ha incoraggiato, che lo ha frustrato con le sue scelte, che quel comportamento violento lo ha determinato. Avviene solo per questi reati. Il processo ruota intorno alla vittima e non all’autore e al fatto commesso dall’autore
È una questione culturale?
L’impianto culturale parte dall’idea che l’uomo non agisce ma reagisce, e la reazione richiede che ci sia qualcuno che determina quella condotta e quindi la vittima diventa corresponsabile, tanto da depotenziare la violenza. Se invece io la condotta la vedo solo nei termini di azione, la vittima non è più corresponsabile.
I giudici cercano di contrastare questa impostazione?
I giudici contrastano questa modalità solo se hanno una formazione molto profonda e solida sulla matrice culturale della violenza di genere. Altrimenti ne sono vittime a loro volta.
Secondo lei, oggi, cosa è importante fare?
Quello che incoraggerei è la presenza di tutti noi nelle aule di giustizie; dovremmo partecipare ai processi, assistere alla loro celebrazione in maniera tale da capire più da vicino qual è l’importanza della lettura culturale che vi avviene all’interno, perché questa è una violenza che non si contrasta nelle aule di giustizia. Si deve contrastare prima rispetto ai comportamenti che noi assumiamo quotidianamente, sia uomini che donne, e che tendono a giustificare e ridimensionare la violenza che vediamo.
Novella Benedetti

Giornalista pubblicista; appassionata di lingue e linguistica; attualmente dottoranda in traduzione, genere, e studi culturali presso UVic-UCC. Lavora come consulente linguistica collaborando con varie realtà del pubblico e del privato (corsi classici, percorsi di coaching linguistico, valutazioni di livello) e nel tempo libero ha creato Yoga Hub Trento – una piattaforma che riunisce varie professionalità legate al benessere personale. È insegnante certificata di yoga.