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Horgos, nei campi rifugiati che Orban vuole smantellare
Conflitti
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Sul confine tra Serbia e Ungheria, presso i valichi di frontiera di Horgos e Kelebija, da un anno ormai centinaia di persone vivono in campi profughi non autorizzati in condizioni del tutto disumane. Entrarci non è facile: solo chi possiede un pass concesso dal Commissariat for Refugees of Serbia (autorità che opera nelle zone di confine affiancando la polizia di frontiera) ha diritto a mettere piede in queste No man’s Land, dimenticate dai media e – sembrerebbe – dai governi.
LA ROTTA DA BELGRADO. Siamo arrivati a Horgos, uno degli snodi che dal nord della Serbia porta in Ungheria, seguendo le voci raccolte a Belgrado: tra i migranti accampati in città, moltissimi stavano cercando di spostarsi fino a qua, sperando in una qualche apertura dei confini. Horgos sorge direttamente sotto le reti metalliche che segnano la frontiera ed è il più grande dei tre campi presenti nella zona. Centinaia di baracche e tettoie costruite con rami strappati dagli alberi dell' area circostante ospitano attualmente tra le 500 e le 700 persone (guarda la gallery). Uomini, donne e famiglie intere, neonati 'figli della rotta', dormono da mesi in tende da campeggio, rifiutando i trattamenti previsti dalla legislazione serba in segno di protesta verso il sistema che limita la libertà di movimento e chiedendo l'apertura del confine per proseguire il proprio viaggio.
15 AL GIORNO NELLA BUFFER ZONE. Per loro il sistema di accesso al territorio ungherese è singolare. Le autorità hanno registrato i nomi di chi è arrivato nel campo e hannostilato una lista, dividendo nuclei famigliari e singole persone. Ogni giorno, 15 persone sulla lista vengono trasferite in una zona di transizione, nel lato ungherese del confine, formata da una schiera di container blu. Il periodo massimo di 'permanenza' al loro interno è di 28 giorni, tempo considerato necessario dalle autorità ungheresi per il controllo dei profili e delle identità. Cosa succede dopo però non si sa: le autorità non lo dicono. Nel dubbio, molti migrani provano ad arrivarci.
Le ossessioni quotidiane: passare la frontiera e ricaricare il cellulare
Nel campo non ci sono infrastrutture adeguate: niente docce, solo tre postazioni per l’acqua corrente e servizi igienici insufficienti, che hanno reso l’area immediatamente circostante il campo una latrina a cielo aperto. L' odore tra le sterpaglie che circondano le tende è terribile. Lo staff dell’Unhcr e di Medicìn du Monde offre una minima assistenza: porta ai migranti vestiario, cibo e acqua, e poco altro. Chi si adopera parecchio invece è la polizia serba che, insieme ai funzionari del Commissariat, sorveglia costantemente la zona e impedisce ai non autorizzati di avvicinarsi al campo.
IN CERCA DI CORRENTE. I volontari internazionali indipendenti arrivati fin qui per aiutare questi disperati sono tenuti lontani: vanno a cercare i migranti in una stazione di servizio sull' autostrada che costeggia il campo e va verso Belgrado, a circa due chilometri dal confine. Qui, i rifugiati arrivano a piedi per cercare un po’ di elettricità per ricaricare il cellulare, l’unico mezzo che li tiene legati al mondo, che offre loro notizie sicure e un po’ di evasione: la batteria degli smartphone è un’ossessione al pari del salto delle barriere, del varare il confine alla ricerca di libertà.
L’OSTILITÀ DEI LOCALI. Spesso però i dipendenti della stazione di servizio non consentono l’allaccio, e tocca camminare fino al villaggio di Horgos, distante alcuni chilometri, per trovare un unico esercizio commerciale che offre la propria presa di corrente. Negoziante a parte, l' ostilità degli abitanti di Horgos è palpabile: lo stipendio medio mensile nella zona si aggira sui 200 euro, e in Serbia, ripetono i cittadini volentieri davanti ai taccuini, «non ci sono soldi da destinare alla solidarietà». Anche la solidarietà delle grandi Ong internazionali, però, non si discosta molto dal semplice assistenzialismo. Che, peraltro, è forgiato sui desideri della politica: ogni migrante ha un numero, si passa 15 alla volte in modo che, pian piano, il campo possa svuotarsi, e secondo le voci che circolano, possa essere smantellato dalle autorità serbe prima dell’autunno.
Cresce l’agitazione nel campo in vista del referendum ungherese di ottobre
Nonostante le registrazioni per passare legalmente siano ormai chiuse - cosa che ha scatenato una compravendita di posizioni nella lista, tristissimo mercato nero delle speranze di vita - la gente comunque continua ad arrivare ad Horgos, sfidando i respingimenti della polizia. Esemplare in questo senso è stata la deportazione, i primi di agosto, di circa 140 persone che stavano attuando uno sciopero della fame in segno di protesta. Il digiuno aveva infatti attirato le attenzioni dei media serbi e ungheresi, e spinto l’ambasciatore austriaco in Serbia fino al campo. Gli scioperanti, parte di un gruppo di circa 300 persone arrivate a piedi da Belgrado la terza settimana di luglio, sono stati dissuasi dal proseguire la protesta, caricati su pullman militari e infine smistati in diversi campi governativi vicini al confine bosniaco.
RISCHIO CHIUSURA CONFINI. L’agitazione e il fermento di questo periodo, dopo mesi di ‘relativa’ quiete sono causati dall’avvicinarsi del referendum indetto da Budapest per ottobre. I cittadini saranno chiamati a scegliere se chiudere totalmente i confini, dopo l’inasprimento progressivo della politica degli accessi e quella delle richieste di asilo voluta da Orban: nell'ultimo anno sono state poco più 180 le domande di asilo accettate dai funzionari magiari.
LA PAURA DEI SERBI. D’altronde, violenze, deportazioni oltre confine, violazioni di diritti e inadempienza dei doveri sull’accoglienza umanitaria sono da tempo la normalità sul territorio ungherese. E la Serbia ora teme che, dopo il referendum, centianaia di persone si riversino sul suo territorio, scatenando proteste in tutta la zona. Le conseguenze potrebbero essere incontrollabili. Ma quantomeno sulla zona si punterebbero nuovamente i riflettori internazionali, al momento tristemente spenti.
Davide Caberlon e Monica Cillerai da Lettera43.it