COVID-19: se il “cessate il fuoco mondiale” resta un'utopia

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Foto: Unsplash.com

E’ passato più di un mese da quando il Segretario Generale delle Nazioni Unite, António Guterres, aveva lanciato un appello ai paesi in guerra di tutto il mondo per un cessate il fuoco immediato, al fine di «affrontare insieme la più grande battaglia globale contro la pandemia del nuovo coronavirus». Da allora ci sono stati sporadici progressi in diverse zone di conflitto, come l’annuncio di un cessate il fuoco da parte della coalizione a guida saudita in Yemen, così come risposte positive in Colombia e nelle Filippine. In tutto, le Nazioni Unite hanno citato 12 paesi in cui almeno una parte in conflitto ha riconosciuto l'appello per il cessate il fuoco al fine di combattere la pandemia. Peccato che alle dichiarazioni non sempre corrispondano i fatti, e tutt’oggi continuano i conflitti in alcune parti dell'Afghanistan, Burkina Faso, Libia, Mali, Myanmar, Siria, Ucraina, lo stesso Yemen, e non solo. Da tempo ormai gli esperti di tutto il mondo mettono in guardia sulle conseguenze umanitarie potenzialmente devastanti che il virus innescherebbe nei paesi impantanati nelle guerre: basti pensare ai sistemi e infrastrutture sanitarie decimate da anni di bombardamenti e di attacchi, ma non solo. Le Nazioni Unite parlano di milioni di persone nei paesi colpiti da conflitti che a tutt’oggi non hanno accesso a cibo, acqua, servizi medici ed elettricità. 

Non a caso Guterres ha rinnovato il suo appello 10 giorni dopo, il 3 aprile, citando la soddisfazione per l’accoglimento della sua proposta da parte di 70 governi, insieme a reti e organizzazioni della società civile e leader religiosi (tra cui papa Francesco). Guterres non ha però nascosto la sua amarezza nel constatare che in diversi teatri di conflitto la forte spinta diplomatica non ha comunque ottenuto gli effetti sperati. Tra questi vi è la Libia dove, nonostante le risposte positive all’appello da parte di entrambe le parti in conflitto – ovvero il governo di Fayez al Serraj, riconosciuto come legittimo dall’Onu, e quello del generale Khalifa Haftar – «gli scontri sono aumentati drasticamente su tutti i fronti, ostacolando gli sforzi per rispondere efficacemente al COVID-19». In un comunicato uscito nei giorni scorsi, l’Onu riporta ad esempio i pesanti bombardamenti che il 12 aprile hanno colpito un'ambulanza vicino a Misurata uccidendo un paramedico (l'ottavo attacco alle strutture sanitarie quest'anno). «Più di 2 milioni di persone, tra cui 600.000 bambini che vivono a Tripoli e nelle città circostanti, hanno subito tagli dell’acqua per almeno una settimana» si legge. 

Altro esempio negativo è lo Yemen, nonostante l’8 aprile l'Arabia Saudita – che guida la coalizione in guerra contro i ribelli Huthi – abbia annunciato un cessate il fuoco di due settimane in risposta all’appello di Guterres. Eppure le incursioni aeree saudite sono continuate, così come gli scontri via terra, mentre l’ulteriore chiusura dei canali di accesso e di transito rischia di provocare una catastrofe nella catastrofe: lo Yemen è infatti un Paese che dipende quasi interamente dagli aiuti umanitari per la sopravvivenza di oltre 22 milioni di yemeniti, e in cui l’intero sistema sanitario è quasi al collasso. Con il primo caso confermato ufficialmente il 10 aprile, il Paese è infatti tra gli ultimi ad aver registrato casi di COVID-19 – probabilmente a causa della limitata possibilità di effettuare i test – ma ora che l’incubo si è trasformato in realtà si prevedono effetti a catena devastanti. Così come in Siria, dove la situazione continua ad essere mobile e imprevedibile, o l’Afghanistan, in cui le parti in conflitto hanno mostrato pochi segnali di disponibilità a una tregua per far fronte al “nemico comune globale»: al contrario, il crescente impatto del COVID-19 sarebbe perfino allontanando i possibili effetti positivi del recente accordo di pace tra Usa e talebani.

Le cose non vanno meglio all’interno dello stesso Consiglio di Sicurezza dell’Onu, dove sembra sfumare la possibilità di una risoluzione che renda vincolante la tregua per far fronte alla pandemia. A mettersi di traverso sono in primis Stati Uniti e Russia: gli statunitensi temono infatti che una misura del genere possa ostacolare la loro capacità di perseguire operazioni militari all’estero contro gruppi terroristici, ad esempio Isis in Iraq, e altri obiettivi ritenuti ostili agli interessi degli Stati Uniti; la Russia avrebbe riserve simili riguardo all'impatto sulle operazioni militari russe in Siria e sul sostegno non ufficiale di Mosca a gruppi di milizie non statali in paesi in guerra come la Libia. «Gli Stati Uniti sono anche preoccupati che un cessate il fuoco possa inibire la capacità di Israele di impegnarsi in operazioni militari in tutto il Medio Oriente» si legge in un articolo sul tema, pubblicato su Foreign PolicyNel tentativo di rompere l'impasse, il presidente francese, Emmanuel Macron, ha proposto una mediazione che non insisterebbe su un cessate il fuoco vincolante e universale, consentendo eccezioni a discrezione dei singoli stati membri. Il che solleva forti dubbi sull’effettiva utilità di una tale risoluzione. Foreign Policy riporta i tentativi statunitensi di ritardare perfino la proposta francese: pretendevano infatti che il testo chiarisse che «il coronavirus è nato in Cina», e volevano che venisse descritto come il «virus di Wuhan». Una posizione che quasi certamente avrebbe innescato un veto cinese. Gli americani hanno poi ritirato questa obiezione ma si sono comunque rifiutati di condividere la lettera firmata da oltre 50 governi, tra cui Italia, Francia e Germania, in cui si accoglieva favorevolmente l’appello al cessate il fuoco del presidente dell’Onu

A confermare il fatto che la tregua globale sembra sempre più un’utopia c’è infine la questione del mercato delle armi, che nonostante le dichiarazioni di alcuni stati sembra non essersi mai fermato. «Intanto la tempesta COVID-19 ha ormai fatto il suo ingresso nei teatri di conflitto – ha confermato Guterres – Il virus ha dimostrato quanto velocemente può attraversare le frontiere, i paesi devastati e le vite sconvolte. Il peggio deve ancora venire».

Anna Toro

Laureata in filosofia e giornalista professionista dal 2008, divide attualmente le sue attività giornalistiche tra Unimondo (con cui collabora dal 2012) e la redazione di Osservatorio Iraq, dove si occupa di Afghanistan, Golfo, musica e Med Generation. In passato ha lavorato per diverse testate locali nella sua Sardegna, occupandosi di cronaca, con una pausa di un anno a Londra dove ha conseguito un diploma postlaurea, sempre in giornalismo. Nel 2010 si trasferisce definitivamente a Roma, città che adora, pur col suo caos e le sue contraddizioni. Proprio dalla Capitale trae la maggior parte degli spunti per i suoi articoli su Unimondo, principalmente su tematiche sociali, ambientali e di genere. 

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