Taglia, fila, tessi la lana… riciclata in Toscana

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Foto: Unsplash.com

Famiglia Calamai, Prato, Toscana. Colline che circondano uno dei più grandi distretti industriali d’Europa dove il tessile ha per lo più occhi a mandorla e su qualità dei prodotti e diritti dei lavoratori spesso ha occhi chiusi. Ma non è solo questo. C’è una rete di fabbriche e mulini che gioca un ruolo cruciale nella produzione e nella vendita di tessuti riciclati. Un processo che ha ramificazioni globali, dalla creazione delle materie prime alla consegna al consumatore e che, come tutte le filiere, ha una sua impronta ecologica. Fare e vendere vestiti è in effetti un’attività decisamente industriale che, a livello mondiale, immette in atmosfera circa 1,2 miliardi di tonnellate di gas serra che contribuiscono al surriscaldamento e all’inquinamento dell’aria che respiriamo ogni giorno, nonché alla crisi climatica in atto. Un report della Ellen MacArthur Foundation (2017) evidenzia come l’industria del tessile sia responsabile di tante emissioni quante quelle, sommate, dei voli e delle navi. Perché? Perché gran parte di queste attività avvengono in Cina, India e Bangladesh, Paesi che fanno affidamento in modo pressoché totale sull’energia derivante dai combustibili fossili, per lo più carbone.

Tutti i materiali vergini, naturali o sintetici che siano, hanno un impatto sulle persone e sul Pianeta: la lana vergine utilizza energia, acqua e prodotti chimici per convertire il vello in tessuto. Il nylon è una plastica derivata dal petrolio, il che significa che la produzione di vestiti utilizzando questo materiale si basa sull’estrazione di combustibili fossili. Il poliestere, utilizzato nel 60% dei vestiti a livello mondiale, è anch’esso derivante dal petrolio.

Insomma, produrre abbigliamento ha sempre un impatto, e ridurlo diventa una strada necessaria e indispensabile. Utilizzare materiali riciclati è dunque uno dei passi obbligati per farsi minimi nei limiti del possibile e remare a favore della sostenibilità, del riuso e della riduzione nell’utilizzo delle materie prime. E una buona parte di questa sfida in Toscana fa perno proprio attorno alla famiglia Calamai, coinvolgendo il Lanificio Becagli e altre realtà della zona in un progetto che ridà vita ai capi in lana dismessi. La fabbrica è abitata dal rumore operoso della sua principale protagonista, la “ghigliottina”, che nonostante il nome un po’ lugubre, non si può dire non abbia appellativo azzeccato. Rivoluzionaria invenzione francese, questa macchina tritura in maniera raffinata la lana, che viene preparata suddivisa per colore: trasportati su una cintura trasportatrice, i tessuti vengono prima tagliuzzati in brandelli da una serie di lame, appunto le ghigliottine, per passare poi attraverso due cilindri che riducono in elementi minuscoli i vari pezzetti. 

È dal 1878 che la famiglia Calamai raccoglie indumenti in lana usati, un secolo prima che la parola “sostenibile” facesse la sua discesa in campo e diventasse tra le più inflazionate di questi ultimi anni. Il bisnonno di Bernardo Calamai, che al momento gestisce l’azienda, percorreva l’Europa in cerca di lana usata e in buone condizioni: dopo la prima guerra mondiale la maggior parte della lana raccolta, che pure proveniva da tutto il mondo, era di origine Californiana e a quel tempo la migliore. Era il tempo dei cenciaioli, che a mano selezionavano i tessuti e li dividevano per tipo e colore. Oggi la maggior parte dei vestiti proviene da India, Stati Uniti e Italia e nella loro strada dallo spreco verso una seconda vita attraversano varie fasi di lavorazione altamente specializzata, che divide, tagliuzza, fila, tesse e produce la materia finale che andrà a creare nuovi vestiti che verranno di nuovo inviati in giro per il mondo.

Insomma, un processo complesso, che non trasforma una cosa vecchia in una nuova per magia, senza impatto alcuno. Nessun miracolo rende un prodotto riciclato “verde”, eventualmente lo rende solo un po’ meno “nero”, perché riduce drasticamente l’estrazione di materie prime, il cui risparmio diventa essenziale in un momento storico in cui il Pianeta viene stressato al punto da non riuscire a rigenerarle. Un passaggio certo necessario, ma che deve andare di pari passo con la riduzione di nuove produzioni, altrimenti significa solo ritardare per poco l’inevitabile.

E non è un caso che proprio il marchio californiano Patagonia, fin dalla sua nascita attento osservatore delle dinamiche di produzione sostenibile e convinto praticante di azioni volte a ridurre il proprio impatto, abbia scelto la famiglia Calamai come rifornitore della lana utilizzata per la linea di prodotti in Woolyester. Il marchio ha cominciato a produrre vestiti da materiali riciclati dal 1996, dalla fusione di bottiglie di plastica nella fibra di poliestere Synchilla®. Ad oggi, il 69% del peso dei prodotti a marchio Patagonia è realizzato in materiali riciclati, siano essi lana, piuma, cotone, polyestere, nylon o cashmere. Un dato che si traduce in 20.000 tonnellate di CO2 risparmiate in un anno, se confrontato con un’analoga produzione che utilizzi invece materiali vergini. Ma c’è ancora molto da fare, e questo al board di Patagonia è chiaro: il tasso di riciclo di materiali nell’industria del tessile rappresenta ad oggi un misero 15%, percentuale che cala drasticamente sotto l’1% se si considera quanto di quei prodotti vada poi a costituire nuovi capi. La strada è ancora lunga, ma è una delle poche realisticamente percorribili.

Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.

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