Piccoli mostri nell’armadio

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Greenpeace, ancora una volta, non guarda in faccia nessuno.

Nel 2011, anno di lancio della campagna Detox your future, più di mezzo milione di persone chiedeva di liberare da residui tossici i vestiti che indossava, sfruttando la capacità di azioni collettive creative, l’abilità nel design e il proprio potere d’acquisto. Obiettivo: ottenere abiti fashion ma che non contenessero sostanze nocive. L’adesione alla campagna si basa ancor oggi sulla firma di un fashion manifesto, basato su alcuni principi fondamentali: impedire che i grandi marchi e i loro fornitori riversino nelle acque di tutto il mondo sostanze chimiche pericolose per l’uomo e l’ambiente; riconoscere che, anche se ciò non potrà accadere da un momento all’altro, si rende in ogni caso necessario un continuo monitoraggio delle produzioni affinché siano trasparenti in relazione ai loro cicli; collaborare e ricompensare, attraverso l’acquisto dei loro prodotti, quei marchi che lavorino in maniera onesta, incoraggiando gli altri a comportarsi allo stesso modo.

Una campagna globale che, anno dopo anno, sfida alcuni dei più famosi brand: nel 2012 il lavoro di Greenpeace porta all’analisi di alcuni capi di venti famose case di moda. Con risultati a dir poco sconcertanti, a partire dall’uso diffuso di nonilfenoli etossilati, tensioattivi non ionici che, a contatto con l’ambiente, si trasformano in composti tossici che causano gravi danni agli organismi acquatici e alterano il sistema ormonale dell’uomo. Non è stato ancora dimostrato se i livelli di sostanze chimiche trovate nei vestiti siano nocivi per chi li indossa, mettendone a rischio la salute, certo è che queste sostanze, rilasciate nell’ambiente, ne condizionano in maniera negativa gli equilibri, con conseguenze di rilievo anche per l’uomo.

Il monitoraggio continua. E’ di pochi giorni fa il comunicato stampa di Greenpeace che non dà tregua ai disonesti del tessile: sostanze tossiche pericolose sono state recentemente individuate in 82 capi d’abbigliamento per bambini, fabbricati per un terzo in Cina per conto di 12 note aziende, tra le quali Gap, Puma, Nike, Disney. Dati sufficientemente gravi se pensiamo che la concentrazione rilevata è equivalente a quella rintracciata negli abiti per adulti. Nomi come PFOA, ftalati e nonilfenoli etossilati dicono ben poco alla maggior parte dei consumatori, più attenti a quanto pare all’indumento firmato che alla salute propria e dei propri cari più vulnerabili: le sostanze rintracciate, per uscire dai loro nomi scientifici, sono interferenti endocrini e, una volta rilasciate nell’ambiente, possono avere potenzialmente effetti dannosi, oltre che sul sistema ormonale, anche su quello riproduttivo e immunitario. Greenpeace invita il governo cinese, che difende il primato di maggior produttore tessile al mondo, a bandire ogni sostanza pericolosa dall’industria, pubblicando una lista nera delle compomenti da eliminare e coinvolgendo le imprese in un’azione immediata che renda più trasparente il processo della filiera, facendosi leader e portavoce a livello globale di una causa alla quale hanno già aderito marchi come Valentino, Mango e Zara. Deadline: gennaio 2020.

Una riflessione però va fatta, e non solo sull’argomento abbigliamento. Le sempre più diffuse scelte di vita eco/green devono fare i conti con una molteplicità di fattori: non basta comprare prodotti biologici per vivere sani, non basta vestirsi solo di tessuti del commercio equo per  essere solidali. Muoversi con circospezione e con consapevolezza nei meandri dei consumi richiede attenzione, uno sforzo di coerenza, la capacità e la volontà di informarsi e approfondire, a volte di rinunciare. E pazienza soprattutto: pazienza per spiegare ai nostri figli che la maglietta che vorrebbero tanto in regalo è un piccolo mostro da tenere fuori dall’armadio, pazienza per aspettare se non troviamo subito e a poco prezzo i pantaloni che vorremmo, pazienza per cercare un prodotto che, se non sempre perfetto, riduca quantomeno al minimo i rischi per la nostra salute. La vita del consumatore responsabile e attento non è facile, è evidente: siamo bombardati di alternative, di marche, di modelli, di sconti e promozioni e non sempre l’offerta ecologica, solidale, rispettosa dei diritti nostri e di chi produce quello che acquistiamo è altrettanto accattivante. Siamo noi che possiamo renderla tale, richiedendo sempre più prodotti puliti e agendo così, attraverso il potere che ci rimane in quanto consumatori, per una maggiore qualità di ciò che ci viene venduto. Si tratta di un’azione che solo a livello collettivo può portare risultati significativi e che implica un ragionamento sulla qualità – e soprattutto sulla quantità! – di quello che acquistiamo: non sempre un paio di maglie a buon mercato vale in qualità un acquisto ragionato e magari un po’ più costoso. In questo caso l’investimento non viene fatto solo sul prodotto, ma anche e proprio sulla qualità della vita e sul rispetto per l’ambiente. A monte delle scelte responsabili però rimane una domanda, una sola, semplice quanto essenziale, che dobbiamo porci prima di tradurre le nostre scelte in azioni: quanto tempo e quanto spazio vogliamo dare, nelle nostre vite, a un ragionamento sul loro senso più autentico?

Anna Molinari

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