Monouso e indifferenziati, le contraddizioni dei dispositivi di sicurezza

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Foto: Unsplash.com

Chi le cerca, chi le compra, chi le vende a prezzi giusti e chi a prezzi esorbitanti. Chi le butta, chi le abbandona nelle campagne, sui marciapiedi, nei prati, persino sui sentieri o sulle spiagge. Le mascherine sono l’oggetto del momento. Tutti ne abbiamo bisogno, tutti le dobbiamo usare, solo alcuni non hanno ancora capito come disfarsene quando non sono più utilizzabili.

L’emergenza COVID-19 ha determinato a livello globale un’impennata di produzione, acquisto e utilizzo. Si parla di un fabbisogno di mascherine di 90 milioni al mese nella sola Italia. Per non parlare dei guanti che, diventati obbligatori in alcune attività, sono passati da un fabbisogno mondiale di 200 miliardi di unità/anno a 10 volte tanto. Si tratta di prodotti monouso, il cui nome ne segna il destino. Si usano una o poche volte e poi si devono cambiare, buttandoli… dove? Nel rifiuto indifferenziato, come un corretto smaltimento prevederebbe se tutto andasse per il meno peggio e se, assieme alla minaccia per la sicurezza, si fosse presa in carico anche una corretta considerazione della minaccia ecologica che questo tipo di consumi comporta. Ispra, Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, ha presentato alla Commissione Ecomafie una stima della gestione dei rifiuti nell’ambito dell’emergenza Coronavirusuna quantità esagerata di rifiuti speciali, che si aggirerebbe intorno alle 450 mila tonnellate all’anno. 

Certo non si può dire che così facendo si vada nella stessa direzione della tanto auspicata (e comunque in difficoltà) economia circolare e della sostenibilità ambientaleSe le questioni di salute individuale e collettiva in questi mesi ci hanno tolto – contro o secondo Costituzione ancora non è chiaro – troppe libertà per affrontare un’emergenza di proporzioni inaspettate, la salvaguardia degli habitat naturali va di necessità di pari passo con queste considerazioni. E non per bucolici afflati da nostalgici figli dei fiori. Per un motivo che invece dovrebbe essere considerato contestualmente alla tutela della salute dell’uomo, il quale però, si sa, ha la memoria corta e dimentica in fretta che proprio la distruzione di quegli habitat naturali ha favorito, come ben chiarito dagli amici di Rivista Natura, le condizioni ecologiche per lo sviluppo della pandemia. E insomma, se aspettiamo palpitanti una soluzione all’emergenza COVID-19, di certo abbiamo meno speranze di trovarne una all’inciviltà delle persone.

In questo periodo in cui, nonostante la ripresa quasi totale di tutte le attività interrotte, molti di noi ancora si muovono a piedi o vicino casa, non è difficile trovare mascherine abbandonate nei luoghi meno opportuni. Tanta cura per la disinfezione e l’igienizzazione, e poi abbandoniamo rifiuti non solo inquinanti, ma potenzialmente infetti, dove capita. Non che uno smaltimento corretto ci consolerebbe del tutto: si tratta in ogni caso di rifiuti indifferenziati, soprattutto le mascherine che, realizzate con polimeri diversi (e propilene, filtri in plastica, lattice), sono impossibili da riciclare. Ad alzare la voce è il WWF, che ha lanciato una campagna per un uso responsabile di questi dispositivi, ma anche per dotare spiagge e parchi di opportuni contenitori: abbiamo già visto troppe foto di animali intrappolati nella plastica, vogliamo aggiungere altre trappole ai loro già compromessi habitat?

Non solo le organizzazioni si stanno però interrogando sul da farsi: le comunità come spesso accade giocano un ruolo cruciale, tant’è vero che alcune tipologie di mascherine sono state identificate proprio come “dispositivi di comunità”. Sono quelle che tante piccole realtà e associazioni, ma anche tante famiglie, stanno cucendo in autonomia, devolvendo in molti casi parte dei proventi a favore di iniziative o enti che si occupano dei più fragili in questo momento in cui le persone con vulnerabilità, proclami a parte, restano ai margini come e più di sempre, ma proprio da quelle periferie tessono reti che impediscono alle comunità stesse, e ai territori che presidiano, di sfaldarsi.

Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.

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