Italia: consumo dunque sono (spacciato)

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Le famiglie italiane - ha scritto quest’anno il Censis nel suo Rapporto annuale presentato a Roma lo scorso 6 dicembre e giunto alla sua 47esima edizione - hanno attuato una profonda ridefinizione dei consumi, attaccando sprechi ed eccessi in nome di una nuova sobrietà”. Ma dal Rapporto, che tenta anche quest’anno l’analisi e l’interpretazione dei più significativi fenomeni socio-economici del Paese, individuando i reali processi di trasformazione della società italiana, appare chiaro che in un’Italia definita “sotto sforzo”, “smarrita”, “profondamente fiaccata da una crisi persistente”, a parte quel 53% di italiani che ha ridotto gli spostamenti con auto e scooter per risparmiare benzina, questa sobrietà non ha ancora molto a che fare con la sostenibilità.

Per il Censis nel 2013, su un campione di 1.200 famiglie, “il 69% ha indicato una riduzione e un peggioramento della capacità di spesa”. Di fatto il 76% dà la caccia alle promozioni, il 63% sceglie gli alimenti in base al prezzo più conveniente, il 62% ha aumentato gli acquisti di prodotti di marca commerciale, il 68% ha diminuito le spese per cinema e svago, il 45% ha rinunciato al ristorante. Nonostante ciò, la pressione fiscale e le spese non derogabili comportano uno stato di tensione continua. Per il 72,8% delle famiglie un’improvvisa malattia grave o la necessità di riparazioni per la casa o per l’auto sono un serio problema. “Il pagamento di tasse e tributi (24,3%), bollette (22,6%), rate del mutuo (6,8%) mette in difficoltà una quota significativa di italiani. Sono poco meno di 8 milioni le famiglie che hanno ricevuto dalle rispettive reti familiari una forma di aiuto nell’ultimo anno. E 1,2 milioni di famiglie, che non sono riuscite a coprire le spese con il proprio reddito, hanno fatto ricorso a prestiti di amici” ha spiegato il Censis.

Eppure in questo 47esimo Rapporto non sono le percentuali a spaventare di più, quanto piuttosto le parole. “Oggi siamo una società più sciapa: senza fermento, circola troppa accidia, furbizia generalizzata, disabitudine al lavoro, immoralismo diffuso, crescente evasione fiscale, disinteresse per le tematiche di governo del sistema, passiva accettazione della impressiva comunicazione di massa. E siamo malcontenti, quasi infelici, perché viviamo un grande, inatteso ampliamento delle diseguaglianze sociali” si legge nel comunicato che ha presentato il Rapporto. Si è “rotto” il ceto medio, lo storico perno della agiatezza e della coesione sociale e adesso troppa gente non cresce, ma declina nella scala sociale. “Da ciò nasce uno scontento rancoroso, che non viene da motivi identitari, ma dalla crisi delle precedenti collocazioni sociali di individui e ceti”.

Tuttavia se la recessione ha portato alla cessazione di più di un 1,6 milioni di imprese dal 2009, nel piccolo commercio, che conta oltre 770.000 imprese, i negozi di vicinato che operano nell’alimentare, pur essendo stati spiazzati dalla grande distribuzione, hanno registrato un lieve incremento, vicino all’1% tra il 2009 e la prima metà del 2013. Il crollo atteso da molti, quindi, per il Censis non c’è stato. “Negli anni della crisi abbiamo avuto il dominio di un solo processo, che ha impegnato ogni soggetto economico e sociale: la sopravvivenza - si legge nel Rapporto -. C’è stata la reazione di adattamento continuato (spesso il puro galleggiamento) delle imprese e delle famiglie. Abbiamo fatto tesoro di ciò che restava nella cultura collettiva dei valori acquisiti nello sviluppo passato (lo scheletro contadino, l’imprenditorialità artigiana, l’internazionalizzazione su base mercantile), abbiamo fatto conto sulla capacità collettiva di riorientare i propri comportamenti (misura, sobrietà, autocontrollo) e abbiamo sviluppato la propensione a riposizionare gli interessi nelle strategie aziendali come in quelle familiari”.

Ma da dove possiamo ripartire? Qui il Censis dice cose piuttosto interessanti. Si registra, infatti, una sempre più attiva responsabilità imprenditoriale femminile nell’agroalimentare, nel turismo, nel terziario di relazione. Anche l’impresa immigrata, per citare un altro anello tradizionalmente marginale nella nostra struttura sociale, nonostante non manchino fenomeni di irregolarità e circoscritte violazioni delle norme di sicurezza, è ormai una realtà vasta e significativa nel nostro Paese al pari della dinamicità delle centinaia di migliaia di italiani che studiano e/o lavorano all’estero (sono più di un milione le famiglie che hanno almeno un proprio componente in tale condizione) e che possono contribuire al formarsi di una Italia attiva nella grande platea della globalizzazione. Non da meno è la cultura, una risorsa fondamentale visto che nel 2012 l’Italia, primo Paese al mondo nella graduatoria dei siti Unesco, presentava una dimensione del settore culturale fortemente contenuta se comparata ad altri Paesi europei.

Ci sono poi due grandi ambiti che consentirebbero l’apertura di nuovi spazi imprenditoriali e di nuove occasioni occupazionali e di consumo. Il primo è il processo di radicale revisione del welfare. Crescono, infatti, il welfare privato (il ricorso alla spesa di tasca propria e/o alla copertura assicurativa), il welfare comunitario (attraverso la spesa degli enti locali, il volontariato, la socializzazione delle singole realtà del territorio), il welfare aziendale, il welfare associativo (con il ritorno a logiche mutualistiche e la responsabilizzazione delle associazioni di categoria). Il secondo ambito è quello della economia digitale: dalle reti infrastrutturali di nuova generazione al commercio elettronico, dalla elaborazione intelligente di grandi masse di dati agli applicativi basati sulla localizzazione geografica, dallo sviluppo degli strumenti digitali ai servizi innovativi di comunicazione, alla crescita massiccia di giovani artigiani digitali.

Tutte ottime soluzioni, ma come ha fatto notare Alessandro Farulli su Greenreport questa volta nell’analisi del Censis “ci sono alcune questioni che convincono di meno, a partire dall’assioma secondo il quale sono solo i consumi individuali a stabilire la qualità della nostra vita”. Dire che serve un “radicale abbassamento della pressione fiscale” e “incentivi ai consumi prontamente utilizzabili” non è sufficiente. “Il Paese è in crisi certamente anche perché non consuma, - ha concluso Farulli - ma se siamo arrivati alla crisi stessa, è perché quel modello di sviluppo basato proprio solamente sul consumo non ha funzionato. In un’ottica di riconversione ecologica del modello di sviluppo i consumi certamente ci sono, ma si stabilisce o almeno si incoraggiano quelli più sostenibili (gli acquisti di beni che utilizzano materiali riciclati, ad esempio) e si inibiscono quelli più impattanti (l’usa e getta per dirne uno)”.

Un modello che abbinato ad una decrescita ragionata, oltre che felice, potrebbe ben interpretare la migliore delle soluzioni ad una crisi che sembra ormai sempre più strutturale che transitoria, magari anche grazie al filo rosso che secondo Censis può fare da nuovo motore dello sviluppo: la connettività fra i soggetti coinvolti in questi processi. “È vero che restiamo una società caratterizzata da individualismo, egoismo particolaristico, resistenza a mettere insieme esistenze e obiettivi, gusto per la contrapposizione emotiva, scarsa immedesimazione nell'interesse collettivo e nelle istituzioni. Eppure la crisi antropologica prodotta da queste propensioni sembra aver raggiunto il suo apice ed è destinata a un progressivo superamento”. Se istituzioni e politica non sembrano in grado di valorizzarla, la spinta alla connettività per il Censis “sarà in orizzontale, nei vari sottosistemi della vita collettiva. A riprova del fatto che questa società, se lasciata al suo respiro più spontaneo, produce frutti più positivi di quanto si pensi”. Un invito a fare rete, magari consumando meno, ma consumando tutti

Alessandro Graziadei

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