I gruppi whatsapp allen(t)ano i riflessi

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Appena installata l’app, qualche anno fa, invidiavo un po’ chi già la usava da tempo e con destrezza si districava tra questi misteriosi “gruppi whatsapp”. Sarà perché ho sempre avuto, per caso o per occasione, amicizie al singolare e non al plurale, sarà perché quando una cosa non hai ancora avuto modo di sperimentarla un po’ ti incuriosisce, sarà perché quando te ne decantano l’utilità e la praticità pensi che in effetti, avendone la necessità, sembrerebbe proprio un’ottima idea. Poi accade che tocchi anche a te, e che ti si aprano finalmente le porte dell’inclusione in non uno, ma persino più d’uno, di quei famosi gruppi che fanno anche di te “una dei nostri”. Lasciando da parte divagazioni psico-filosofiche sulla costruzione dell’identità tramite il senso di appartenenza, ammetto che l’efficacia organizzativa, la condivisione e l’ebbrezza di essere una comunità unita da interessi e obiettivi comuni mi ha lasciata - com’era forse non così assurdo supporre - sbalordita. Per la sua rispondenza alle aspettative, giusto?

Ehm, no, a dire il vero esattamente per il contrario. Leggevo qualche tempo fa una vignetta, che attribuiva ad Albert Einstein una considerazione che recita più o meno: “La luce è più veloce del suono. Per questo motivo alcune persone sembrano brillanti fino a quando non parlano.” Mi è venuta in mente adesso, mentre scrivo, perché la sensazione è stata proprio questa. Una degenerazione alla velocità della luce di quello che potenzialmente poteva essere uno strumento sorprendente e che, invece, a suon di notifiche e beep, si è rivelato essere interessante cartina di tornasole per guardarci in faccia (se riusciamo ad alzare gli occhi dagli schermi dei nostri smartphone, of course) e dirci un po’ di verità sulle persone che stiamo diventando.

Insomma, questo articolo non vi citerà nessuna indagine sociologica, nessuna ricerca scientifica, nessun sondaggio. In giro se ne trovano parecchi sulle ricadute sociali dell’uso intensivo di smartphone e social, e non è difficile rintracciarne qualcuno. Questo pezzo è solo un tentativo, maldestro come può esserlo quello di chi in prima persona è rimasta per un periodo abbagliata dal suo fascino ipnotico, di unire qualche puntino intorno alle conseguenze di un utilizzo improprio di quelli che, diciamocelo, rimangono pur sempre efficienti strumenti di comunicazione che ci garantiscono rapidità e interconnessioni un tempo inimmaginabili. Certo, come ogni opportunità è valida e preziosa se colta nel verso giusto, altrimenti la storpiatura in agguato miete vittime in un batter d’occhio, senza lasciarci nemmeno il tempo di accorgercene.

Vi faccio un esempio: una persona di uno dei gruppi di cui sopra, qualche tempo fa, è sparita per qualche giorno. E no, non intendo sparita come conseguenza di una lecita (forse, perché di questi tempi non si può dire) e innocua scelta a favore di un periodo sabbatico offline. Intendo proprio sparita, con tanto di messaggi che allertano reti affettive nel tentativo di capire perché il proprio caro risulti inspiegabilmente irrintracciabile, anche al suono del campanello di casa. La preoccupazione di amici e parenti è comprensibilmente elevata, e quindi qualunque mezzo è utile per farsi aiutare nella ricerca. Anche un gruppo whatsapp. Non è questo il luogo per inopportune e inutili suspense, quindi vi dico subito che quella persona è stata fortunatamente presto ritrovata. Ma il cuore del ragionamento non è questo, ovviamente. Il cuore (se di cuore in questo contesto ha ancora senso parlare) sta nella reazione dei componenti di quel gruppo: le stesse persone che pochi giorni prima si scambiavano in quella stessa sede video dei propri animali domestici e mitragliate di messaggi per gli auguri di ferragosto (e tralasciamo di soffermarci sul senso generale di vignette che definirei eufemisticamente ridicole con papere e orsetti che sbandierano auguri per una festa di mezza estate), nel momento in cui il messaggio condiviso era di rilevante gravità hanno taciuto, quasi tutte.

Ora, saprete di certo che esiste l’infida possibilità di controllare chi abbia visualizzato un particolare messaggio inviato. Vi anticipo che non ci sono giustificazioni in questo senso, tutti nel gruppo hanno letto quel messaggio quasi subito. La verifica offrirebbe l’occasione anche per una riflessione en passant su quanto queste opzioni possano intaccare la reciproca fiducia senza che ce ne rendiamo conto, ma non voglio soffermarmi su questo punto. E non è nemmeno compito mio, né vostro, pensare a scusanti o motivi del perché chi ha taciuto abbia scelto di comportarsi in questo modo. Compito nostro è fermarci un attimo a pensare a cosa queste modalità comunicative ci stanno avviando ad assomigliare.

Sembra che qualcosa dentro di noi si inceppi se qualcosa o qualcuno, direttamente o indirettamente, richiede un coinvolgimento emotivo superiore alla veloce selezione di emoticon preconfezionate, spesso di dubbio gusto, e ancor più spesso di casuale utilizzo. Le relazioni surrogate a cui ci siamo velocemente abituati e abituate - e che riempiono di notifiche le nostre solitudini - improvvisamente lasciano intravedere una falla. Una crepa in cui si insinua con la forza di un fiume in piena la vita vera, quella che ci lascia a bocca aperta, attoniti e impreparati, tranciando di netto ogni capacità di esprimere i nostri sentimenti con personalità e coraggio, senza nasconderci dietro espressioni preimpostate che simulano stati d’animo ed emozioni standardizzate, traducendole in immagini nel silenzio delle parole e dei pensieri.

Insomma, i gruppi whatsapp allentano i riflessi: ci fanno smarrire il senso della realtà, la capacità di reagire davanti a uno stimolo complesso che richieda una risposta altrettanto complessa e articolata, un po’ più ambiziosa - e forse un po’ più profonda - di un disegno animato. O forse dovremmo dire, sottraendo una consonante, che questi gruppi i riflessi li allenano: perché forse ci permettono di ripeterci, come in una palestra di cura reciproca e di costruzione quotidiana di comunità autentiche, che quello che gli altri sono è in parte anche il riflesso di noi stessi, dei mostri che possiamo diventare senza accorgercene, incapaci di una parola di conforto o di preoccupazione, di attenzione o di interesse, che segnali che dietro quel messaggio breve di testo (che comunque utilizziamo e continueremo a utilizzare perché ormai parte costituente del nostro essere nel mondo) c’è ancora una persona, un volto, un sentimento d’affetto, di rabbia, di inquietudine, di qualsiasi cosa che nella vita increspa le anime.

Ecco, allora vi confermo che questo articolo non è la predica della domenica, tra l’altro dal pulpito di chi ai pulpiti non crede. E’ solo, forse, la frustrazione condivisa nei confronti di una parola dimenticata. Mi vengono in mente quei quadernetti che andavano di moda qualche anno fa e che si trovavano nei tabacchi e nelle librerie: 100 frasi per 100 occasioni, mesti auguri da copia-incolla nella tristezza omologata che trasudano. Ci sono ancora in giro? Ma no, forse la domanda da fare è un’altra. Ci sono ancora in giro persone che si assumono la responsabilità di esprimere coraggiosamente, con la complessità di un vocabolario ricco o con la semplicità di poche parole sincere, un sentimento, un’opinione, un augurio? Vi prego, ditemi di sì, ditemi che ci proviamo a non diventare fantasmi nascosti dietro inquietanti facce gialline che soffiano cuoricini senza battito.

Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.

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