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Figlio mio ma quanto costi?
Consumo critico
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Essere genitori oggi: una sfida che diventa sempre più difficile da raccogliere. Ce lo dicono i dati – nel 2012 più di 12 mila nascite in meno rispetto all’anno precedente – ma ce lo dicono anche le infinite sfumature di un mondo in evoluzione che sempre più spesso spinge le coppie – giovani e meno giovani – a rinunciare all’idea di avere un figlio. Perché? Per molteplici ragioni, è ovvio: generare una nuova vita richiede oggi più che mai attenzioni significative agli aspetti educativi e sociali di un’identità in via di formazione, e precariato e insicurezza generalizzati, anziché spingere a combattere la paura con nuove forze, incidono pesantemente sulle scelte familiari delle coppie, soprattutto italiane.
Avere un figlio alimenta ansie parentali – e ambientali – legate alla salute dei nuovi nati e ai rischi a cui andranno incontro via via che inizieranno le loro frequentazioni in società, dal nido al parco giochi alla palestra alla scuola. Senza contare che diventa sempre più pressante la sensazione che, come genitori, si sia sempre meno all’altezza delle richieste – psicologiche, affettive, formative, materiali – che i nostri figli ci sottopongono, con le parole o con la loro semplice esistenza, che chiama a una cura incondizionata a cui forse non ci si sente pronti. Ma c’è un’altra ragione, tristemente attuale, che va a sommarsi alle precedenti e a molte altre non sviscerate. Un motivo che esce dal sommerso in cui fino a poco tempo fa riposava e si fa sempre più invadente nella quotidianità di molti. Un bambino costa. E non sono certo solo i figli dei quartieri popolari a gravare sul budget familiare.
Secondo le stime della testata canadese The Globe and Mail, il primo anno di vita di un bambino è tra i più impegnativi, incidendo sulle uscite del nucleo familiare con circa 8,000 dollari in più. Non solo perché le entrate sono nella maggior parte dei casi dimezzate – o quasi – a causa della pausa lavorativa che uno dei due genitori (per lo più la madre) affronta, ma anche perché, proprio mentre diminuiscono le entrate, aumentano le spese. Una serie di oggetti apparentemente indispensabili invadono le case: fasciatoio, culla, box, lettino, vaschetta per il bagnetto, seggiolino per l’auto, carrozzina, passeggino, ovetto… e questi sono solo alcuni dei molti oggetti che si aggiungono all’inevitabile impennata di costi dovuta all’aumento dei consumi di acqua ed elettricità (…my beautiful laundrette…!)
Ma è davvero questa la vita all’orizzonte di aspiranti e neo genitori? Avere un figlio – o più di uno – equivale davvero a sostenere un sacrificio economico tanto pesante da indurre spesso a sospirare “Vorremmo tanto avere un figlio ma non ce lo possiamo permettere, non abbiamo abbastanza soldi per mantenerlo…”?
Un interessante articolo di Katherine Martingo porta in luce ciò che in realtà, già da diverso tempo, sta succedendo anche in Italia, grazie a numerose esperienze fiorite sul terreno della decrescita, del risparmio e del rispetto ambientale. È sufficiente una semplice ricerca online o sui social network per rintracciare numerosi gruppi formali e informali di scambio e riciclo, che pullulano di idee innovative e creative per far fronte alla crisi, alla carenza di spazio, alla voglia di recuperare l’esistente senza rinunciare alla gioia di dare vita a una nuova vita. Sono realtà nate per contrastare quelle tendenze consumistiche che fanno leva sulla supposta necessità di oggetti “mai-più-senza”… nella maggior parte dei casi superflui. Martingo indugia su alcune considerazioni forse banali, e però non sempre, evidentemente, così scontate: prima di tutto, bando alle mode. I costi preventivati nelle stime dei “baby cost calculators”, veri e propri strumenti di previsione economica dei possibili costi dei nuovi nati (che tra l’altro escludono le spese degli asili nido), sottendono l’idea che un genitore debba: 1) comprare tutto l’occorrente ex novo, anziché frequentare gruppi di scambio o negozi dell’usato e riciclare oggetti già in possesso di amici o di altri genitori; 2) adoperare pannolini monouso; 3) comprare omogeneizzati e cibi in scatola.
È innegabile che alcuni degli oggetti soprannominati siano necessari, ma è anche altrettanto vero che i costi da coprire non schizzeranno mai, con alcune accortezze e con alcune scelte paradossalmente controcorrente anche se ovvie, agli estremi prospettati. Il surplus sul budget familiare dell’autrice dell’articolo, ad esempio, nel primo anno di vita del figlio ammonta a soli 600 dollari, per lo più investiti in: tessuti di alta qualità per i pannolini e seggiolino per l’auto. Per tutto il resto le è stato possibile usufruire di oggetti ceduti da altri genitori, persone che non hanno esitato a sbarazzarsi con favore di ingombranti equipaggiamenti ormai “fuori età” per i loro figli. Per non parlare di alcuni (apparentemente imprescindibili) must che andrebbero di pari passo con la nascita di un bambino o di una bambina: una casa con più stanze, più spazio a disposizione, una macchina più grande.
Eppure, avere meno spazio aiuta e incoraggia ad avere meno oggetti (facilitando tra le altre cose anche gli spostamenti), e potrebbe rivelarsi l’aiuto più propizio verso una serie di scelte oculate, rispettose dell’ambiente e, soprattutto, delle nostre famiglie. Approfittando di uno stimolo che ci viene, anche se involontario e magari non cercato, proprio dall’attuale situazione economica, i più saggi raccoglieranno certo l’invito ad adottare comportamenti intelligenti. Uno stile di vita più sostenibile, non solo quando non comprare non è più un’opzione ma la vera necessità, ma anche (e forse a maggior ragione) quando la scelta rimane ancora valida: ridurre, riutilizzare, riciclare, non finiremo mai di ripetercelo. Un insegnamento che resta attivo e utile anche quando la famiglia cresce, per potersi così permettere investimenti migliori, non solo economici, ma sociali, relazionali e familiari, contrastando l’allarmismo indotto a favore di una vita più autentica, fin dalla culla.