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Covid-19. Chi salverà i lavoratori che producono i nostri vestiti?
Consumo critico
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Foto: Unsplash.com
In questo momento, oltre un terzo della popolazione mondiale è interessato da una qualche forma di restrizione dei movimenti per contenere la diffusione della pandemia da covid-19. Crescono gli impatti sull’economia globale, e anche sul settore del tessile e sui grandi marchi della moda. Un settore, quello della moda, di luci e ombre; ombre che l’emergenza pandemica sta acuendo. È di questi giorni la denuncia della Campagna internazionale “Clean Clothes - Abiti Puliti” che chiede alle grandi firme della moda e ai “marchi” dell’abbigliamento di tutelare maggiormente i lavoratori nelle catene di fornitura globali, a partire dal pagamento degli ordini già effettuati.
La crisi del tessile ci tocca anche in Italia, dove tuttavia esistono degli ammortizzatori sociali per tutelare il reddito dei lavoratori e supportarci nei momenti più critici. L’ondata peggiore, invece, passa nei paesi dove si produce su commissione. Dove la relazione tra aziende e sindacato è fragile e dove le garanzie per chi perde il lavoro sono minime, o non ci sono.
La Campagna denuncia come molti marchi dell’abbigliamento che hanno delocalizzato la produzione stiano scaricando le conseguenze del calo della domanda sui fornitori, cioè sulle fabbriche locali, cambogiane, o del Bangladesh, ecc. che non possono più pagare gli operai. Normalmente si prevede che i grandi marchi paghino i fornitori solo alla consegna, tuttavia viene denunciato come a causa della diminuzione della domanda globale, sono pochi i "marchi" che pagano gli ordini, anche quelli già prodotti, lasciando le fabbriche locali senza liquidità per pagare i salari dei lavoratori, e ancora peggio sarà per i mesi a venire, quando nessun ordine probabilmente arriverà. Una violazione dei contratti che sarebbe resa possibile dalla sostanziale asimmetria dei rapporti tra committente (il “marchio” dell’abbigliamento) e fornitore (la fabbrica locale).
Se si considerano i grandi guadagni dei marchi dell’abbigliamento e i miseri stipendi dei lavoratori nei paesi di produzione, la richiesta della Campagna “Abiti Puliti” per una maggiore tutela di questi lavoratori in un tale momento di crisi, si comprende meglio. Deborah Lucchetti, coordinatrice della Campagna Abiti Puliti, spiega: «È fondamentale che i marchi in questo momento assolvano i loro obblighi contrattuali e paghino gli ordini effettuati e in molti casi già prodotti. In questa drammatica situazione, è urgente garantire a tutti i lavoratori nelle filiere globali risorse sufficienti a soddisfare i bisogni delle loro famiglie e a sopravvivere alla crisi. Le imprese multinazionali hanno costruito la loro ricchezza sull’utilizzo di milioni di lavoratori sottopagati in paesi dove non sono presenti le infrastrutture di protezione sociale necessarie a tutelare i lavoratori nei momenti di crisi»
Due rapporti diffusi a marzo fanno il punto della situazione: “Abandoned?” del Center for Global Workers’ Rights e“Who will bail out the Workers that make our clothes?” del Worker Rights Consortium, mettono in luce gli effetti del covid-19 sulle catene di fornitura lontane da casa nostra.
Le due ricerche sottolineano come in buona parte dei paesi produttori di abbigliamento, i meccanismi di protezione sociale, come l’assicurazione sanitaria o l’indennità di disoccupazione, non esistono o sono insufficienti. Secondo le informazioni diffuse dalla Campagna Abiti Puliti, i paesi più colpiti sono lo Sri Lanka, il Bangladesh, l’Indonesia, l’Albania e gli stati dell’America centrale.
Si tratta di lavoratori che, a causa dei bassi salari e della diffusa repressione della libertà di associazione vivono già in situazioni precarie. «I lavoratori tessili vivono alla giornata. Se perdono il lavoro, perderanno il loro salario mensile che permette di mettere in tavola il cibo per la famiglia», ha detto Kalpona Akter, presidente del Bangladesh Garment & Industrial Workers Federation. «I marchi dovrebbero garantire pagamenti immediati ai fornitori, in modo che i lavoratori possano ricevere piena indennità di licenziamento».
Un esempio illustrato dalla Campagna Abiti Puliti è quello della regione di Yangon in Myanmar, dove circa il 10% delle fabbriche di abbigliamento è temporaneamente chiuso, i lavoratori non ricevono il loro stipendio e molti di essi rimarranno senza alcun sussidio. Molti vivono già indebitati, chiedendo prestiti per compensare le carenze del basso salario, e ora rischiano anche di perdere eventuali terreni di famiglia messi a garanzia del prestito richiesto.
Questi effetti sono spesso esacerbati dalla cattiva gestione della crisi da parte dei governi nazionali. Ad esempio, le organizzazioni sindacali denunciano come il virus sia stato preso come pretesto per reprimere i sindacati. I rapporti denunciano casi in Myanmar in cui i lavoratori sindacalizzati sono stati i primi ad essere licenziati dalle imprese in difficoltà finanziaria.
La Campagna Abiti Puliti annuncia che dalla pubblicazione di questi due rapporti, un piccolo numero di marchi ha accettato di pagare gli ordini che le fabbriche stavano già producendo: H&M, PVH Corp., che possiede Tommy Hilfiger e Calvin Klein, Inditex, proprietario di Zara, e Target.
Ma la coordinatrice della Campagna denuncia la necessità di risolvere il problema alla radice: «Questa crisi deve produrre un cambio strutturale del modello di business, a partire dalla introduzione di meccanismi di regolazione delle filiere globali e di norme vincolanti per le imprese, a tutti i livelli».
Lia Curcio

Sono da sempre interessata alle questioni globali, amo viaggiare e conoscere culture diverse, mi appassionano le persone e le loro storie di vita in Italia e nel mondo. Parallelamente, mi occupo di progettazione in ambito educativo, interculturale e di sviluppo umano. Credo che i media abbiano una grande responsabilità culturale nel fare informazione e per questo ho scelto Unimondo: mi piacerebbe instillare curiosità, intuizioni e domande oltre il racconto, spesso stereotipato, del mondo di oggi.