Cibo: quanti gradi mi costi?

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Foto: Pixabay.com

Come avevamo ricordato in dicembre, riprendendo lo studio Global food system emissions could preclude achieving the 1.5° and 2°C climate change targets”, pubblicato su Science da un team di ricercatori statunitensi e britannici, “Se vogliamo raggiungere l’obiettivo dell’accordo di Parigi sul clima di limitare l’aumento della temperatura globale a 1,5°C o 2°C sopra i livelli preindustriali, ciò che mangiamo, quanto mangiamo, quanto viene sprecato e come viene prodotto il cibo dovrà cambiare drasticamente entro il 2050”.  Se, infatti, le tendenze alimentari attuali continueranno così (o come è prevedibile peggioreranno), le emissioni dei sistemi alimentari supereranno l’obiettivo di 1,5°C entro 30 – 45 anni e potrebbero superare l’obiettivo di 2°C entro 90 anni, anche se tutte le altre fonti di emissioni di gas serra si fermassero immediatamente. Se poi altre fonti di emissioni di gas serra raggiungessero lo zero entro il 2050, l’obiettivo di 1,5° C verrebbe in ogni caso superato in 10 – 20 anni e l’obiettivo di 2°C entro la fine del secolo. Il paradosso in questa deriva ecologico-alimentare è che spesso i cibi più economici risultano essere anche i più inquinantiSecondo lo studio “Calculation of external climate costs for food highlights inadequate pricing of animal products”, pubblicato a fine 2020 su Nature Communications da Tobias Gaugler dell’Universität AugsburgMaximilian Pieper del Technische Universität München e Amelie Michalke dell’Universität Greifswald “Il danno ambientale derivante dalla produzione di alimenti non si riflette attualmente sui loro prezzi”. 

Insomma, se venissero determinati i costi aggiuntivi derivanti dagli impatti dei gas serra emessi dai prodotti alimentari di origine animale  come il latte, i formaggi e soprattutto la carne cosa accadrebbe? Il team guidato dall’economista Tobias Gaugler ha dipinto un quadro differenziato delle emissioni di gas serra per i diversi tipi di coltivazione e allevamento, determinando quali emissioni avvengono e in quali punti della produzione. Oltre alla CO2, gli autori hanno incluso nei loro calcoli anche le emissioni di protossido di azoto e metano e gli effetti climatici del cambiamento dell’utilizzo del suolo, che sono causati soprattutto dal drenaggio delle torbiere e dalla deforestazione delle aree della foresta pluviale, che vengono poi utilizzate per la produzione di mangimi per animali. Per mostrare l’entità di questo danno climatico, oltre a determinare le quantità di emissioni prodotte, è stato anche monetizzato, convertendolo in costi specifici aggiuntivi del cibo e mettendolo in relazione questi costi con gli attuali prezzi di mercato dei prodotti alimentari. I ricercatori tedeschi hanno così dimostrato che “In particolare, gli alimenti di origine animale prodotti convenzionalmente dovrebbero diventare molto più costosi se si aggiungessero al prezzo gli impatti climatici derivanti dalla produzione, in un modo da tener conto del principio chi inquina paga.  

Se comprendessero i loro costi climatici, i prodotti lattiero-caseari dovrebbero essere il 91% più costosi di quanto sono oggi e i prodotti a base di carne dovrebbero essere fino al 146% più costosi e questo perché sia i metodi convenzionali che quelli biologici di produzione della carne portano a costi aggiuntivi e emissioni altrettanto elevati, visto che l’allevamento di bestiame biologico richiede più superficie per soddisfare gli standard di benessere e perché è generalmente meno produttivo. Tuttavia, una tendenza chiave notata dai ricercatori è che le maggiori differenze nelle emissioni sono oggi determinate dal tipo di cibo, piuttosto che dal metodo di coltivazione. Un confronto tra i diversi tipi di coltivazioni dimostra che, dopo aver adeguato le rese, “I livelli di emissione dell’agricoltura biologica sono leggermente inferiori a quelli dei metodi di produzione convenzionali”. Questo suggerisce che, in definitiva, la scelta di ciò che mangiamo potrebbe avere un’influenza maggiore sulla salute ambientale rispetto al modo in cui il nostro cibo viene coltivato e allevato. Un risultato che ha stupito lo stesso Gaugler: “Noi stessi siamo rimasti sorpresi dalla grande differenza tra i gruppi di alimenti studiati e in particolare dal conseguente errato prezzo dei prodotti alimentari di origine animale sui risultati”. Per la Michalke “Se questi errori di prezzo di mercato dovessero cessare di esistere o almeno essere ridotti, questo avrebbe anche un impatto importante sulla domanda di cibo e quindi sul clima, perché un cibo che diventa molto più costoso sarà anche molto meno richiesto”.

Calmierare i prezzi potrebbe essere quindi una strada da percorrere per contribuire a mitigare il cambiamento climatico? Sì e no. Oggi anche i più piccoli aumenti del prezzo di alcuni alimenti essenziali – che per molte persone, per ragioni complesse, possono includere latticini e prodotti a base di carne – non dovrebbero diventare inaccessibili perché questo, di per sé, sarebbe socialmente insostenibile, ma se come fanno notare i ricercatori tedeschi intervenissero sussidi e misure di compensazione sociale capaci di garantire un accesso equo all’alimentazione, privilegiando una scelta in buona parte vegetariana o vegana ci sarebbero una serie di vantaggi a cascata: “Indirizzando i consumatori, attraverso l’aumento dei costi di alcuni prodotti,  verso scelte più sostenibili, il consumo di carne diminuirebbe,  liberando dalla produzione di bestiame e mangimi grandi territori che potrebbe essere restituiti alla natura, il che aiuterebbe il recupero degli ecosistemi e dei servizi ecosistemici che forniscono agli esseri umani”. Inoltre, incorporando i costi ambientali in tutti gli alimenti, si ridurrebbe il baratro della differenza di prezzo tra il cibo coltivato in modo convenzionale e quello prodotto biologicamente rendendo gli alimenti biologici, oltre che più sostenibili per l’ecosistema, anche più accessibili ai consumatori. 

Certo lo studio ci ricorda anche che “l’agricoltura biologica richiede più terra e quindi questo progressivo cambiamento potrebbe anche portare a un aumento involontario dell’utilizzo del suolo”, ma per i ricercatori “Personalizzare il danno ambientale attraverso il costo del cibo potrebbe dare ai consumatori una consapevolezza maggiore e un interesse più attivo nella protezione della salute del pianeta". E questo tornerebbe a beneficio di tutti visto che "L’approccio qui presentato rappresenta un contributo ai costi reali del cibo, che, anche con un’implementazione parziale, potrebbe portare a un aumento del benessere della società nel suo complesso”. Per Gaugler “In questo contesto, vediamo il nostro compito di scienziati soprattutto nel fornire dati e informazioni sia ai cittadini che ai regolamentatori, che possono, con un richiamo normativo alla scienza della sostenibilità, allineare le loro azioni su questa base”.

Alessandro Graziadei

Sono Alessandro, dal 1975 "sto" e "vado" come molti, ma attualmente "sto". Pubblicista, iscritto all'Ordine dei giornalisti dal 2009 e caporedattore per il portale Unimondo.org dal 2010, per anni andavo da Trento a Bologna, pendolare universitario, fino ad una laurea in storia contemporanea e da Trento a Rovereto, sempre a/r, dove imparavo la teoria della cooperazione allo sviluppo e della comunicazione con i corsi dell'Università della Pace e dei Popoli. Recidivo replicavo con un diploma in comunicazione e sviluppo del VIS tra Trento e Roma. In mezzo qualche esperienza di cooperazione internazionale e numerosi voli in America Latina. Ora a malincuore stanziale faccio viaggiare la mente aspettando le ferie per far muovere il resto di me. Sempre in lotta con la mia impronta ecologica, se posso vado a piedi (preferibilmente di corsa), vesto Patagonia, ”non mangio niente che abbia dei genitori", leggo e scrivo come molti soprattutto di ambiente, animali, diritti, doveri e “presunte sostenibilità”. Una mattina di maggio del 2015 mi hanno consegnato il premio giornalistico nazionale della Federazione Italiana Associazioni Donatori di Sangue “Isabella Sturvi” finalizzato alla promozione del giornalismo sociale.

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