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Canapa, una presenza costante nella montagna italiana
Consumo critico
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Foto: L. Michelini ®
Cresce velocemente, per la sua robustezza non ha bisogno di essere trattata con pesticidi o erbicidi, si adatta ai climi più diversi, le sue radici migliorano la struttura del terreno e lo arricchiscono in carbonio, può essere utilizzata in tutte le sue parti e ha costi di produzione bassi. Questa è la canapa.
La fibra tessile più antica dopo il lino, cresce spontaneamente dal basso Danubio fino alla Cina settentrionale, anche se non si è ancora del tutto sicuri della provenienza di questa pianta ampiamente coltivata dagli uomini e diffusa dagli uccelli. Le prime stoffe in canapa possono essere datate intorno all’8.000 a.C. circa, prima della lavorazione del metallo, e nel 2.700 a.C. i cinesi coltivavano la canapa per un utilizzo sia tessile che medicinale.
Anche Erodoto (450 a.C. circa) parla della canapa nel raccontare dei popoli sciti che abitavano “nei paesi senza alberi oltre il Mar Nero” e ne descrive l’utilizzo per i rituali di sepoltura del VI sec. a.C.
L’introduzione della canapa in Italia pare essere avvenuta ad opera proprio degli sciiti e degli illirici, che arrivarono nello stivale fra il X e l’VIII sec. a.C. e nel V-IV sec. a.C. si registra una diffusione della sua coltivazione in tutto il Paese. Fino agli anni ‘30 l’Italia era seconda solo alla Russia nella produzione canapiera, mentre era prima per qualità e selezione delle specie vegetali e genetiche.
Ma se per ricostruire le fasi del ciclo produttivo di altre fibre comunemente usate, come la lana, non mancano dati ufficiali né testimonianze storiche, diverso è il discorso per la canapa e molto probabilmente perché la sua lavorazione non aveva caratteri industriali. Nelle montagne del nord Italia si usavano molto i filati di canapa, mentre il lino e il cotone erano usati saltuariamente. Sebbene l’allevamento di bachi fosse piuttosto diffuso, raramente si impiegava il filo di seta nella tessitura: i bozzoli erano quasi sempre venduti a commercianti del Vicentino, Padovano o Trevigiano e solo gli scarti erano usati per la confezione di canottiere o calze.
Nel bellunese, ad esempio, la maggior parte della biancheria ad uso familiare era fabbricata a livello domestico a partire da filato di canapa, molto usata fino alla fine del secondo conflitto mondiale soprattutto dalle comunità rurali. Non veniva esportata, né grezza né semilavorata.
Era un lavoro enorme produrre il filo partendo dalla canapa e ad occuparsene erano le donne: le piante andavano raccolte, fatte macerare, battute, poi seguiva la cardatura ma il lavoro più duro iniziava in inverno, al momento della produzione del filato. Quando la donna non era impegnata ad accudire casa e bambini, la attendeva la filatura. Nelle giornate più fredde nonne, mamme, zie, tutte assieme si recavano nelle stalle, il posto più caldo a disposizione perché riscaldato dal fiato delle mucche, senza dover sprecare legna preziosa, ed ora dopo ora attorcigliavano pazientemente gli interminabili fili di canapa. Per far scorrere meglio il filato fra le dita queste venivano inumidite dalla saliva prodotta in grande quantità grazie al consumo delle acide bacche di corniolo, che le donne di tanto in tanto pescavano dalle grandi tasche degli abiti usati per lavorare. Nei momenti di pausa si abbrustoliva nel forno della cucina economica una tazza di chicchi di canapa, sgranocchiati sul momento o pestati finemente per diventare condimento per gnocchi e ravioli. Col tempo, si è scoperto poi che il seme della canapa ha delle percentuali molto elevate di acidi grassi essenziali, importantissimi per le nostre reazioni immunitarie.
La tessitura veniva eseguita principalmente dagli uomini (lavorare con i pesanti telai di un tempo richiedeva molta forza), che tessevano i filati provenienti dalle varie famiglie poiché in molte zone montane del nord Italia c’era un solo telaio per paese. Le risorse erano poche e in questi luoghi dominava l’economia di sussistenza: si cercava di produrre tutto in casa, scelta dettata dall’isolamento. L’autosufficienza, garantita dal contributo di numerosi artigiani, contadini, allevatori, è stata la condizione indispensabile per la sopravvivenza.
Tuttavia, con l’avvento di industrializzazione e proibizionismo, questa pratica è stata abbandonata. Basti pensare che negli anni ‘50 in Italia c’erano 100mila ettari di terreno coltivati, ridotti drasticamente a 400 nel 2013 e timidamente ricresciuti a 4mila nel 2018.
Il problema del ritorno di questa coltura risiede nel fatto che, in primo luogo, i semi vanno acquistati e per legge non si possono autoprodurre e, in secondo luogo, alla canapa viene ancora, sciaguratamente, associato il concetto di marijuana, di sballo, di droga.
Ma per gli italiani questa pianta è stata un prodotto agricolo e una materia prima vitale, robusta e frugale allo stesso tempo, che ha cresciuto e sfamato generazioni di persone. Coltivarla oggi vorrebbe dire promuovere una pianta locale, sostenibile e poco impattante per l’ambiente, in grado di fornire fibre tessili di qualità e cibo sano, nutriente. Coltivare la canapa consentirebbe di far tornare in vita pezzi di storia italiana che rischiano di andare persi per sempre e favorire una filiera locale dalla A alla Z, dove vengano prodotti materiali vegetali, non sintetici o importati da Paesi in cui i diritti dei lavoratori non sono rispettati.
“Non vogliamo tornare indietro, ma ci chiediamo: al di là della canapa esiste ancora l’aiuto reciproco, lo scambio di lavoro, la capacità di attendere, l’interesse per il proprio ambiente, la capacità di usarlo adeguatamente, l’abitudine dei giovani di ascoltare e di apprendere dagli anziani, il rispetto per chi aveva più esperienza?”.
Così recitano le ultime righe di un piccolo libricino ciclostilato del ‘77, redatto dal consiglio della biblioteca popolare di Chies e Codenzano d’Alpago (Belluno).
Lucia Michelini

Sono Lucia Michelini, ecologa, residente fra l'Italia e il Senegal. Mi occupo soprattutto di cambiamenti climatici, agricoltura rigenerativa e diritti umani. Sono convinta che la via per un mondo più giusto e sano non possa che passare attraverso la tutela del nostro ambiente e la promozione della cultura. Per questo cerco di documentarmi e documentare, condividendo quanto vedo e imparo con penna e macchina fotografica. Ah sì, non mangio animali da tredici anni e questo mi ha permesso di attenuare molto il mio impatto ambientale e di risparmiare parecchie vite.