Una dignità senza pari

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Foto: M. Canapini

Nel novembre 2019, seguendo le principali rotte dei migranti/profughi lungo i confini d’Europa, ho trascorso circa un mese in Senegal, focalizzando l’attenzione sui “ritornanti”, ossia coloro che dopo anni trascorsi in Italia (o in Europa) hanno deciso di tornare a casa. Condivido un estratto di quel racconto corale, fatto di speranze, ingiustizie, pratiche economiche e solidali. 

Lungo il viale intitolato al fisico e antropologo Cheik Anta Diop incontro Aloise Sarr, il direttore della Caritas locale. “Il nostro ente si occupa giornalmente di migrazioni. L’impegno è cominciato nel 1995 coi profughi liberiani e sierraleonesi; abbiamo aperto uno sportello di assistenza psicologica e da quel momento non abbiamo più smesso. Riceviamo costantemente gente, profughi, migranti interni. Il Senegal è segnato dal fenomeno della migrazione verso l’Europa da svariati anni. Il picco risale al 2005/2006, in concomitanza con la crisi alimentare globale e l’impennata dei prezzi. Stando agli ultimi dati raccolti, molte partenze si verificano da Ziguinchor, Tambacounda, Kolda, Sédhiou ma anche dalle zone periferiche di Dakar. La migrazione interna, soprattutto quella diretta verso i centri urbani è diventata sempre più importante. Gli effetti del cambiamento climatico, le siccità ricorrenti e il degrado dei suoli costituiscono i fattori che causano l’insicurezza alimentare, che a sua volta aumenta la mobilità. Inoltre il limitato accesso ai fattori di produzione, in particolare alla terra, è uno dei motivi che limitano l’investimento dei giovani nel loro territorio di origine. La fuga resta dunque talvolta l’unica alternativa, che indebolisce ulteriormente il settore. Io stesso posso definirmi un migrante poiché provengo dalla Petite Côte, la costa meridionale, tra la penisola di Capo Verde e il delta dei fiumi Sine e Saloum.”. 

“Cosa pensa del ruolo che ha l’Europa nei confronti dell’esodo africano?”.

 

“Se vogliamo parlare dell’UE non finiamo più. Sappiamo tutti le storie di coloro che rischiano la vita, le piroghe che dal 2006 si dirigono verso nord, i voli charter che rimpatriano persone a Dakar o Saint Louis. Thiaroye e la sua grande spiaggia hanno visto partire i giovani per anni e anni. Ragazzi ventenni che si affidavano (e si affidano) a gingilli, talismani, amuleti, Marabout (una specie di cardinale islamico a cui si attribuiscono poteri paranormali), ma la verità è che molti non sanno neppure dove vanno, parlano senza neanche conoscere correttamente la lingua francese. È come se tentassero il suicidio, non è detto che arrivino”. Il signor Sarr gesticola vistosamente, un anello con croce cristiana stretto all’indice. 

“Cosa fare dunque?” incalzo, ponendo un po’ a tutti la stessa domanda. 

“Cosa poter fare quando Italia, Spagna, Francia pagano l’Africa per trattenere i migranti, come nel caso dei Lager in Libia? Costringono intere generazioni a intraprendere la rotta illegale, facendo passare le vittime dei loro giochi perversi come fannulloni, ladri, violenti. In futuro si potrà invertire questa tendenza. Tutto il mondo sa, non c’è nulla di nuovo da scoprire, solo aiutare. Non sono il buon Dio per fare supposizioni, so solo che il mondo cambierà. In meglio o in peggio non spetta a me dirlo, lo sa solo il Signore. Troveranno pace anche gli scontri tra cristiani e musulmani. Attraverso la preghiera risolveremo ogni cosa”. In prossimità dell’unico albero del cortile, cerco risposte più pragmatiche confrontandomi con due volontarie italiane del Servizio Civile, Francesca e Federica. “A Dakar in tanti cercano l’illusione europea, compresi migranti che in Italia difficilmente vedremo sbarcare, come congolesi o mozambicani. Ognuno ha il suo vissuto. I gambiani, ad esempio, richiedono asilo politico tramite l’UNHCR per scampare alle violenze conseguenti l’omosessualità dichiarata, sia maschi che femmine. È buffo, ma in Senegal è illegale l’atto in sé ma non l’orientamento sessuale dell’individuo. Nel nostro piccolo aiutiamo i migranti che vogliono tornare a casa, ossia i cosiddetti rimpatri volontari. Valutiamo il caso ed eventualmente acquistiamo il biglietto dell’autobus fin dove possibile, solitamente uno Stato confinante alla terra d’origine della persona. L’ultimo tratto è in mano al diretto interessato, solitamente. Copriamo la spesa dei vaccini e quelle del trasporto, con la conferma da parte del conducente che scendano nel posto indicato. Se qualcuno vuole partire per l’Europa tentiamo di dissuaderlo, perché a volte le motivazioni sono superficiali, le risposte vaghe, ma quando non rivediamo più il soggetto intuiamo all’istante l’esito. C’è un intento di cura al centro del nostro operato. Le notizie delle rotte o delle carceri libiche ci giungono dai racconti di coloro che riescono a tornare indietro, come Dennis e Francis, giunti a Dakar in luglio dopo cinque anni in Libia. Entrambi avevano perso i documenti nel deserto. Da invisibili hanno vissuto per strada, poiché in Senegal non esiste un sistema d’accoglienza né per rifugiati né per richiedenti asilo. Il Senegal è come una persona che ti invita a casa ma non ti fa sedere. Basta mantenere un profilo basso per non avere grossi problemi; non è ancora di moda la caccia al clandestino come altrove. Ricordiamo anche una famiglia congolese rifugiatasi inizialmente in Ciad: hanno vissuto in una macchina parcheggiata nel cortile in cui ci troviamo ora per due mesi. Una dignità senza pari. Non chiedevano nulla, si accontentavano di briciole, piano piano sono tornati a galla, nessuno sa come hanno fatto.” 

La circumnavigazione dello stato più piccolo d’Africa, ossia il Gambia, procede pacata fino all’alba. Kafountine accoglie l’imbarcadero con uno stridore di eliche consumate. Un malato di mente, coi piedi legati a una cordicella, saltella tra le piante rigogliose di mangrovia. Abdou, ventotto anni, premuroso operatore di Cospe Onlus, individua la spiaggetta da cui partivano in massa le piroghe: “Il boom è stato nel 2007. Due corpi sono pure tornati a riva, tutti gli altri chissà. Laggiù c’è il Gambia, vedi? A sud la Guinea Bissau. La povertà, ecco il motivo, la povertà! I canoni europei a cui aspirano molti ragazzi sono malati, fittizi, illusori. La vita in Africa è dura certo, ma come tenore si sta meglio qui... Eppure partono tutti. A Kafountine si vive di pesca e agricoltura. Anche il turismo dà una bella mano, aiuta a stringere contatti, affari, amicizie. I ragazzi dei quartieri si raggruppano di nascosto, la notte. Vendono terreni, si indebitano pur di partire. Pagano in media novecentomila franchi. I migranti conoscono i pericoli, ma se rischiano significa che davvero non c’è alternativa. Molti, non abituati al mare, muoiono di crepacuore ancor prima di affogare. L’unica maniera per cambiare il paradigma è migliorare le condizioni qui, aprire nuovi canali lavorativi”. I pescatori locali sono meno sofisticati rispetto a quelli di Dakar, praticano una pesca artigianale fatta di reti e calli sui polpastrelli. Nugoli di mosche nere ricoprono alghe, stivali di gomma, galleggianti. 

In una casa isolata sorvegliata da una ragazza incinta ci attende Abayomi, 24 anni. Il numero civico è inesistente. I polli cagano sopra un filare di panni stesi ad asciugare. “Ho intrapreso la rotta clandestina per cercare lavoro, il soldo è più forte in Europa. Mali, Burkina Faso, Niger, Libia. Autobus e jeep 4x4. Era il 2 giugno 2016. Mio fratello maggiore vive in Spagna dal 2007, è uno dei tanti ragazzi partiti in piroga dalla spiaggia di Kafountine. Provavo invidia sentendo i suoi racconti d’oltremare. Ci ho provato, ma mi è andata decisamente peggio. Ho trascorso due mesi in Niger e uno in Libia prima di venir incarcerato per cinque mesi. Ho pagato 300.000 franchi per attraversare il Mediterraneo. Siamo arrivati così vicini all’Italia da riuscire a vedere la costa sottile di Lampedusa, a trenta minuti scarsi di navigazione. Ci trovavamo in acque internazionali, ma la Guardia Costiera libica ci ha rispedito indietro.” Abayomi aveva il cellulare in mano, pronto ad avvisare i famigliari della buona riuscita del viaggio. Era così vicina Lampedusa da poterla toccare con la mano. “In prigione stavo morendo: botte e torture. Convivo con fantasmi che non vogliono abbandonarmi. Un pomeriggio è apparso un responsabile del Consolato senegalese a Tripoli. Ho chiesto all’istante il rimpatrio volontario e con un volo charter sono tornato. Resto qui, anche se ogni settimana se ne vanno amici e conoscenti. Resto qui, in attesa di finanziamenti, qualsiasi cosa per campare dignitosamente.” Sopra le staccionate bisbigliano i diavoli di Abayomi. 

Matthias Canapini

Matthias Canapini è nato nel 1992 a Fano. Viaggia a passo lento per raccontare storie con taccuino e macchina fotografica. Dal 2015 ha pubblicato "Verso Est", "Eurasia Express", "Il volto dell'altro", "Terra e dissenso" (Prospero Editore) e "Il passo dell'acero rosso" (Aras Edizioni).

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