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Senegal: Ferro come donna
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Foto: Matthias Canapini
Nel novembre 2019, seguendo le principali rotte dei migranti/profughi lungo i confini d’Europa, ho trascorso circa un mese in Senegal, focalizzando l’attenzione sui “ritornanti”, ossia coloro che dopo anni trascorsi in Italia (o in Europa) hanno deciso di tornare a casa. Condivido un estratto di quel racconto corale, fatto di speranze, ingiustizie, pratiche economiche e solidali.
Thiaroye è uno storico quartiere di pescatori inglobato gradualmente dalla capitale. Tra i suoi vicoli incontro Babacar Ndiaye, 27 anni, rientrato a Dakar il 3 gennaio 2013 dopo dieci anni trascorsi a Milano, in piazzale Corvetto. “Sono atterrato in Italia nel 2005. Ho svolto sempre lavori manuali spezza-schiena. Dal 2008, con il consolidarsi della crisi, faticavo a giorni alterni. Ho scelto di tornare momentaneamente a Dakar per salutare amici e conoscenti. Avrei voluto fermarmi due mesi per poi tornare a Milano e ricominciare a lavorare, ma nel frattempo il permesso di soggiorno è scaduto e da allora, pur avendo passaporto e carta d’identità valida, sono bloccato qui sebbene la mia vita sia altrove. Dopo la morte di mio padre ho ereditato una vecchia piroga e per sopravvivere a questa precaria attesa esco in mare, anche se del pesce non c’è traccia. Le navi asiatiche ed europee, in accordo col governo centrale, stanno saccheggiando e rovinando il nostro mare da quindici anni. Prima sono venuti i russi e i cinesi, ora hanno aperto il mare anche agli europei. Il nuovo accordo che Dakar ha siglato con l’Unione Europea, concluso nel novembre del 2014, prevede il rilascio di trentasei licenze a otto pescherecci con lenze a canna, ventotto pescherecci con reti a circuizione, le quali catturano prevalentemente il tonno. A questi si aggiungono due grandi navi da traino per la pesca profonda che prendono di mira il merluzzo nero. In cambio, il Senegal ottiene una ‘compensazione finanziaria’ di svariati milioni di euro per i cinque anni che copre l’accordo. È l’amara verità”. Ogni mattina all’alba Babacar parte e ciò che trova vende. Guadagna trenta, quaranta, cinquanta euro al massimo, da dividere in sei. Lo stipendio a fine mese si aggira attorno ai centocinquanta euro. “Tanti pescatori locali protestano, ma è inutile. Il nostro era un mare regolare, limpido, pescoso, ora è semplicemente sfruttato. In Mauritania, ad esempio, dipendendo esclusivamente dal mare poiché il paese è circondato dal deserto, hanno regolarizzato la pesca: per tre mesi chiudono il tratto di mare, fanno riprodurre i pesci e ricominciano ciclicamente. Qua stanno scomparendo i Barracuda, i Blu Marlin, i pesci Vela.” “Vista le condizioni hai mai riflettuto sulla possibilità di viaggiare come clandestino ed entrare in Europa illegalmente?”. “No, non ci penso nemmeno; o trovo un modo regolare o resto qui a fare la fame. Chi si imbarca per morire nel Mediterraneo non sa nemmeno nuotare. Noi pescatori sappiamo bene chi è il mare - dichiara Babacar, riferendosi all’estensione liquida come fosse una divinità - La rotta costa in media 2.000 euro ma non parte più da Thiaroye perché la Guardia Costiera senegalese e spagnola pattugliano assiduamente le coste. Dunque, per chi fosse interessato, si passa in Marocco o in Libia, dove ti attende il carcere o la tortura.”
Nel primo giorno del Grand Magal (l’annuale pellegrinaggio religioso della Fratellanza islamica Mouride) le strade appaiono deserte. L’atmosfera sacra della cerimonia, carica di misticismo, attenzione, bellezza estetica, ha catturato la città in modo innocente, sprigionando maree di fedeli da Dahra a Kaffrine. I pochi resilienti esclamano sorridendo tout le mond est a Touba, contenti del poco traffico. In poco più di mezz’ora attraversiamo l’autostrada sgombera che collega Thiès a Dakar, imbucandoci a Thiaroye sur Mer, dove ci attende Yayi Bayam Diouf, sorridente nel suo boubou di seta violacea. Madame Diouf ‘La donna di ferro’, presidente di Coflec (Collettivo Donne per la Lotta contro l’Emigrazione Clandestina), un comitato di 375 donne che hanno perso i figli in mare, inghiottiti dalle onde mentre tentavano di lasciare clandestinamente il Senegal. La donna, abituata alle frequenti visite di conoscenti, giornalisti e curiosi, racconta con le mani in grembo: “Nella vita mi sono sempre arrangiata, ma essere donna in Senegal non è facile. La famiglia si aspetta che tu sposi un uomo che possa badare a tutti quanti. Il marito si aspetta che tu possa essere una compagna, un’amante e, a volte, occorre dirlo, pure una serva. I figli, dal canto loro, si aspettano che tu sia una guida sempre pronta a indirizzarli. I parenti acquisiti si aspettano che tu sia sempre gentile e accondiscendente. Tutti si aspettano qualcosa da una donna senegalese. Era giunto il tempo che una donna si prendesse cura di tutte le altre donne. Gli uomini si permettono di trattare le donne come gli pare, minacciandole che in caso di disobbedienza prenderanno un’altra o più mogli. Noi donne cresciamo con la paura di dover condividere il nostro marito e la nostra casa con un’altra donna. È un’angoscia quotidiana lo spettro della poligamia. Non date retta a chi dice che tutto ciò è normale, che è semplicemente un tratto culturale del Paese. Io sono stata una moglie devota e all’improvviso ho dovuto accettare un’altra donna in casa. L’ho fatto per amore, ma ho pianto e sofferto. Le case, la famiglia, il lavoro in Senegal va avanti perché dentro le abitazioni, nascoste e ignorate, ci sono donne con dodici braccia. Con enorme fatica ho mantenuto mio marito, mi sono diplomata e poi è nato mio figlio, il primo e unico.” Lo sguardo tanto acceso di Madame Diouf è difficile da sostenere, sebbene dagli occhi non traspaia riluttanza, bensì lucidità di pensiero. Sulla spiaggia bianca frotte di bimbetti allegri si rincorrono, gli anziani leggono il Corano come se fossero lì da sempre. “Il comitato è nato per le donne. Siamo come una grande rete di supporto, nata per far capire a tutte che non siamo degli oggetti al servizio di tutti, ma anche soggetti partecipanti allo sviluppo del paese. Dobbiamo essere consapevoli che un paese non vissuto o abbandonato dai giovani non ha futuro. Negli anni abbiamo creato un fondo utilizzato per il micro-credito. Lo scopo è quello di finanziare piccoli progetti imprenditoriali e attività economiche di vario tipo.” Sapendo che è la prima donna pescatrice di tutto il Senegal, domando alla presidentessa se abbia mai percepito tensioni nel suo essere diversa, anarchica, critica. “Molte persone mi hanno voluto incontrare, alcuni mi hanno minacciato. È normale. In una società prettamente maschilista, le donne che si battono per l’indipendenza e la crescita culturale del proprio genere non sono ben viste. Nonostante i dissapori, io sono sempre andata avanti, perché la mia è una missione. Le donne possono essere superiori alle spirali di sofferenza. L’associazione infatti ha pure un altro scopo: vole essere una rete di madri che, dopo aver perso i loro figli in mare, hanno deciso di sensibilizzare la popolazione sulla migrazione clandestina. Dobbiamo dire no alla migrazione compulsiva che noi stessi abbiamo messo in moto. Da anni andiamo nelle scuole e organizziamo incontri pubblici per dimostrare che altre possibilità di realizzazione educativa e lavorativa ci sono. Viaggiare è possibile all’interno di modalità legali, senza mettere a repentaglio la vita dei nostri figli. I giovani faticano a comprendere, non li biasimo, sono prigionieri di un sistema burocratico che impedisce loro di sperimentare, evolversi, vedere.”
Secondo molti l’emigrazione clandestina a Thiaroye sur Mer comincia idealmente nel settembre del 2005, quando una famiglia di pescatori parte per una cattura in alto mare, che sarebbe dovuta durare quindici giorni. Le donne rimaste a casa, senza notizie per più di tre mesi, li credono morti. Nel dicembre dello stesso anno i famigliari scomparsi si fanno vivi, raccontando telefonicamente che una forte tempesta li ha portati fino alle Isole Canarie. Da quel giorno una psicosi collettiva cattura il villaggio: tutti i giovani disoccupati, a bordo di piroghe artigianali, tentano l’assalto fortuito all’Oceano Atlantico, sperando di percorrere la stessa rotta dei pescatori. Nel maggio 2006 ottantuno giovani originari di Thiaroye muoiono annegati durante una delle traversate. Tra essi c’è anche il figlio di Yayi Bayam Diouf. “Quella è la spiaggia da dove è partito mio figlio. Il mio unico figlio. Era un ragazzone di ventisette anni, faceva il pescatore. Mi disse che voleva partire, tentare fortuna all’estero. Io ho cercato di dissuaderlo, ma in fondo, dentro di me, so che non ho fatto abbastanza per impedire ciò che è avvenuto poi. Un giorno mi disse che sarebbe andato in Mauritania. Era una bugia, aveva già programmato tutto, pagato un posto in piroga, organizzato il viaggio. Mi ha chiamato che era già in viaggio; mi disse che sarebbe arrivato in Spagna e che avrebbe lavorato per me. Mi chiamò una seconda volta per dirmi che il mare era agitato e che aveva paura. Pregai per lui e piansi. Provai a chiamarlo per ore, per giorni, per mesi. Il silenzio ha lasciato spazio alla disperazione. Dopo qualche mese, una telefonata dalla Spagna. Era un conoscente senegalese che si era incaricato di avvisare tutte le madri dei ragazzi partiti con la stessa piroga di mio figlio. Il numero della canoa era stato ripescato al largo delle coste spagnole. Tutti dispersi. Mio figlio non è stato inghiottito dal mare, ma da un miraggio che da troppo tempo acceca la nostra società. L’immigrazione è un fatto insieme soggettivo, famigliare, comunitario... Riguarda tutti”. “Essendo una trasformazione collettiva, cosa si può fare oltre ad allacciare rapporti, imbastire collaborazioni?” domando.“Nulla. La responsabilità più grande di tutte ce l’ha l’UE. Che razza di risposta è costruire barriere, deportare i giovani nel deserto, dar via a un’agenzia come Frontex? L’Unione Europea e tutti i governanti devono cambiare le leggi, rendere il movimento delle genti libero e sicuro, altrimenti parti ma hai il 75% di possibilità di non tornare più. C’era un tempo in cui a Thiaroye si viveva bene tra pesca e agricoltura. Ora la situazione è precaria e vulnerabile. Il pesce viene rubato dalle grandi navi internazionali, le case vengono mangiate dalle mareggiate, il deserto avanza inesorabile. Le partenze via mare sono diminuite, ma si sono aperte nuove rotte, forse ancor più fatali. Le migrazioni non sono mai a senso unico.”
A quattro passi di distanza ci segue Souleymane, un signore dall’aria giovanile che ha trascorso ventitré anni a Bergamo, lavorando come operaio nella bonifica dell’amianto. Nel 1992 è partito anch’esso in piroga, ma da Tangeri, per una traversata breve e, a detta sua, abbastanza sicura. “Le autorità all’epoca mi hanno rimpatriato, ma hanno fatto bene. Vivevo come clandestino da tre anni, in via San Domenico. Comprendo ciò di cui parla Madame Diouf. I visti carissimi per espatriare, l’aiuto umiliante delle Caritas, le attese infinite. È snervante emigrare. Thiaroye è un fenomeno globale, tutto il mondo parte da qui. Tra queste viuzze rosicchiate dall’oceano trovi trafficanti, mafiosi, chiunque può darti agganci per tentare la fuga. Yayi ha provato parlare anche con loro, tentando di ammorbidire e sensibilizzare chi fa soldi sulle vite altrui”. Il giorno prima della partenza, al giovane pronto per ‘fare l’avventura’ si offre una ciotola colma di latte zuccherato e pane raffermo. Nelle logiche del rituale, il pane condiviso rappresenta la pace, il latte simboleggia la purezza e lo zucchero il sapore dell’abbondanza. Terminata la cerimonia un membro della famiglia porge ai restanti un secchio d’acqua fresca con cui sciacquarsi le mani, dopodiché apre l’uscio di casa e getta il liquido sul selciato. Colui che attraversa la pozza d’acqua versata sarà protetto durante il viaggio.
Matthias Canapini

Matthias Canapini è nato nel 1992 a Fano. Viaggia a passo lento per raccontare storie con taccuino e macchina fotografica. Dal 2015 ha pubblicato "Verso Est", "Eurasia Express", "Il volto dell'altro", "Terra e dissenso" (Prospero Editore) e "Il passo dell'acero rosso" (Aras Edizioni).