Yarmouk Express

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Foto: M. Canapini 

Nell’aprile 2019, seguendo le principali rotte dei migranti/profughi lungo i confini d’Europa, ho trascorso a intermittenza una decina di giorni in Albania. Condivido un estratto di quel racconto corale, raccolto tra valichi montuosi e paesi “di frontiera”. 

A riscaldarci dal cappotto gelido dell’equinozio sono gli occhi gentili di Yeda, 24 anni, seduta sul bordo del letto a massaggiarsi i piedi doloranti. L’alloggio fornito della Caritas è scarno ma confortevole: un letto a castello, una stufetta, un tavolino su cui giacciono confezioni di yogurt, tre mele, il biberon di Jood (sei mesi) che assieme al padre Mohamed compone il resto della famigliola. “Vivevamo nel campo profughi di Yarmouk, un distretto di Damasco popolato da palestinesi. Frequentavo un corso in Storia dell’Arte ed ero contenta della mia vita, nonostante le bombe e il cibo freddo. Sarei potuta anche rimanere in Siria poiché la mia famiglia appoggiava politicamente Bashar al-Assad. Non avrei avuto troppi problemi ma nel 2014 ho deciso di andarmene per ricongiungermi a mio marito. Mohamed era un poliziotto… Un giorno gli hanno ordinato di sopprimere le rivolte e sparare contro la propria gente…

Lui si è rifiutato ed è scappato in Turchia in quanto disertore. Già nel 2012 aveva rischiato la pelle. Mentre dormiva un bomba ha centrato il loro appartamento, uccidendo tre suoi amici e ferendo lui gravemente. Mohamed bruciava come una torcia accesa. Grazie a Dio alcuni passanti l’hanno soccorso gettandogli addosso una coperta per soffocare le fiamme. In ospedale, oltre agli interventi chirurgici, gli hanno inserito delle placche in titanio nel petto e nel braccio destro”. La pelle del giovane, sbottonatosi su richiesta di Yeda, appare raggrinzita, come un tessuto ovino riscaldato alla brace. Dalle ascelle alle orecchie, l’epidermide reca gli sfregi neri del fuoco, le bozze dei capillari scoppiati. Mentre parliamo, rammento che Yarmouk non esiste quasi più: dei cento ottantamila residenti che vivevano tra le vie strette del campo, simbolo della diaspora palestinese e per decenni roccaforte del movimento di resistenza, non ne restano che seimila. “Agli orrori della guerra si sono aggiunte le violenze di Daesh. Mancava cibo, acqua potabile, medicine. I cadaveri, gonfi come palloni, erano veicoli per infezioni e malattie. Per denutrizione ho perso mia figlia… Nove mesi di vita. A Idlib cadevano colpi di mortaio giorno e notte. Quel martedì che ho superato illegalmente il confine turco-siriano, un’autobomba ha ucciso tredici persone di cui tre bambini. Abbiamo vissuto quattro anni in Turchia, risparmiando soldi per il viaggio. Sono rimasta incinta mentre progettavamo nei dettagli la partenza per le isole greche”. Il gommone su cui viaggiava la coppia, al terzo urto delle onde indiavolate, si è rovesciato come un guscio di noce, sparpagliando in mare cinquantaquattro esseri umani. Scoprirono all’istante che i giubbotti di salvataggio erano fasulli, imbottiti di spugna e carta straccia. “Avevamo pagato ben 1.200 euro anziché 600 per quei salvagenti, fidandoci del trafficante che prometteva di vendere solo prodotti di alta qualità. Abbiamo pagato di più semplicemente perché temevamo la morte; ma il tratto di mare era breve e la Guardia Costiera ci ha salvato. Nell’ospedale da campo dell’isola di Chios è nato nostro figlio Jood. Dopo il parto abbiamo raggiunto Atene a bordo di un traghetto e, da lì, dritti verso l’Albania. Ieri l’altro, anziché un’ora, abbiamo impiegato quindici ore per raggiungere il confine albanese. Ci siamo persi sulle montagne, il GPS non è servito. Ora prendiamo fiato e pensiamo all’avvenire. Nutro mio figlio con del latte in polvere, ma lo sento debole. Avrebbe bisogno di vitamina D, vaccini, ricostituenti. Ogni volta che lo guardo mi domando che futuro potremo dargli in Europa”. Aida (cooperante Caritas) piange lacrime silenziose guardando i comignoli fumanti fuori dalla finestra. Non è semplice, per una persona sensibile, ascoltare una storia simile e avere l’amara consapevolezza di non poter fare nulla per cambiare lo stato delle cose

Nei pressi di Gjirokastër (in greco Fortezza Argentata) c’è un pulmino di linea carico di bestemmie che attraversa una vallata incagliata tra i monti Mali, i Gjerë e il fiume Drino. C’è un oste quattordicenne, Clay, che chiacchiera come un adulto e disseta bocche baffute. C’è del pane secco, rimasugli di caffè e Suor Severina, 85 anni, alla sua ultima missione prima del congedo. C’è la fusione dell’arte greca, romana, bizantina, turca e albanese, e il passato che ritorna, coi resti del campo di concentramento di Tepelene. “Era meglio morire che andare là dentro. Ci finivano soprattutto mogli e figli di uomini invisi al regime. Il campo rimase attivo dal 1949 al 1954, ma tanto è bastato per farlo passare alla storia come uno dei luoghi più infami del regime comunista. Ho conosciuto tanti superstiti tra cui una donna che lavorava, lavorava e a fine giornata riceveva un bicchiere d’acqua salata. Questa donna ebbe un bambino, ma essendo vietato avere rapporti nel campo ed essendo impossibile crescere un figlio in quel contesto, fu seppellito sottoterra (per un po’), dissotterrato e portato di nascosto fuori dal campo dentro un sacco di ossa suine” racconta Eva, grattando con l’unghia dell’indice il rilievo di una svastica. C’è una preghiera strozzata in gola e un pollice di rakj bestiale a benedire l’ugola. Torniamo al presente grazie a una pacca energica di Matilde, donna schietta, poliglotta, tra le fila della Caritas locale: “Con l’arrivo del turismo estivo la Grecia sta aprendo i cancelli per sbarazzarsi momentaneamente dei profughi, ammassandoli in campi sulla terraferma. I turisti globali, in vacanza tra Chios e Lesbo, potranno dormire sonni tranquilli fino a settembre inoltrato, grazie a una politica che mistifica la realtà. Il classico teatrino della polvere ammassata sotto al tappeto. Si parla di quarantamila persone solo al confine con la Macedonia, relegate laggiù senza indicazioni o appigli. Persone stanche, sofferenti, tese, che tenteranno di forzare i muri d’Europa. Ne sentiamo tante ogni giorno: prostituzione, traffico d’organi, combutte mafiose, criminalità; tutti sotto-mondi sconosciuti delle migrazioni in atto. L’Albania sollecita per registrare tutte le persone in transito, mentre la Grecia non fa nulla, o meglio: fa come la Turchia. Se un Paese terzo, ad esempio, ottiene fondi per gestire diecimila persone, ma nel campo eretto ne ospitano la metà, dove finisce, e a chi va, il restante del denaro? I fondi dell’UE spesso sono una facciata per nascondere un business gigantesco dove la vita umana vale quanto una ciabatta. A Kakavia c’era un vecchio edificio dell’era comunista. Caritas Tirana l’ha rinnovato e imbiancato, ha fornito letti, lavatrici e arnesi infermieristici. È un luogo arrabattato, forse malmesso, ma strategico. Se non ci fossimo noi a monitorare i passaggi giornalieri, qualcuno potrebbe venir rispedito indietro e, dopotutto, chi lo verrebbe mai a sapere? Esserci nonostante tutto, e sperare nel buonsenso”.

Anche la Tv 20 pollici del traghetto salpato da Durazzo diffonde le voci dei viandanti: quindici iracheni fermati a Kakavia; dodici pakistani beccati dentro un camion sloveno; quattro afgani braccati a Niksic. Può essere davvero un crimine inseguire l’aspirazione del domani? Una colpa essere nati nella parte maledetta del mondo? 

Matthias Canapini

Matthias Canapini è nato nel 1992 a Fano. Viaggia a passo lento per raccontare storie con taccuino e macchina fotografica. Dal 2015 ha pubblicato "Verso Est", "Eurasia Express", "Il volto dell'altro", "Terra e dissenso" (Prospero Editore) e "Il passo dell'acero rosso" (Aras Edizioni).

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