In attesa del salto

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Foto: M. Canapini

Nel settembre 2019, seguendo le principali rotte dei migranti/profughi lungo i confini d’Europa, ho trascorso circa tre settimane tra le enclave spagnole di Ceuta e Melilla e l'area portuale di Tangeri. Condivido un estratto di quel racconto corale, fatto dibarricate, violenze, passi condivisi. 

Bandu, gambiano di 32 anni, pare attendermi sotto un leccio rigoglioso, cresciuto vicino ad un borgo agricolo alle pendici del monte Gurugù, ribattezzato dai tanti migranti in transito Libera Repubblica del monte Gurugù. “Non si paga né per entrare né per uscire, è sufficiente essere introdotti da un conoscente per vivere negli accampamenti informali. Collaboriamo solo per i pasti. Tutti sanno che se sei finito qui è perché non avevi abbastanza soldi per pagarti il viaggio in barca da Rabat o Larache. Dal primo giorno mi hanno suggerito di dormire fuori dagli accampamenti perché i poliziotti marocchini fanno spesso irruzione all’alba e devastano quel che trovano. Picchiano, arrestano, appiccano fuoco ai rifugi. Non avendo soldi né potendo lavorare, siamo costretti a mendicare di casa in casa. Ogni quarantotto ore scendiamo a Farkhana, a tre chilometri dagli accampamenti. Scendiamo in città veloci, giusto il tempo per procurarci da mangiare”. Farkhana e Melilla potrebbero essere considerate un solo agglomerato, se non fossero tagliate in due dalla frontiera. È il punto finale dei clandestini: fede, amuleti e scale a pioli. “Sono qui da sette mesi, ma non ho conosciuto nessuno a Farkhana. Non ho tessuto legami né amicizie. Anche se tutti i giorni vai dalla stessa famiglia supplicandola in arabo, loro aprono la porta, ti danno velocemente gli avanzi e via. 

Comment vivons-nous mon ami? C’est facile. Facciamo collette per comprare seghe, chiodi, martelli. Dalle camere d’aria delle biciclette ricaviamo delle strisce per legare i pioli ai montanti della scala. La maggior parte delle volte la Guardia Civil spagnola ci individua prima ancora di esserci avvicinati alla zona di passaggio. Siamo i protagonisti di una squallida caccia all’uomo. E ti dirò di più… Ci vogliono quarantacinque clandestini perché un respingimento fino a Oujda sia vantaggioso dal punto di vista economico.

Se il raccolto del giorno non è soddisfacente, vieni sbattuto in prigione e puoi rimanerci settimane, fino a quando i gendarmi non riuniscono la merce necessaria per riempire l’autobus.” Bandu a Oujda c’è finito davvero. Tre soldati sorvegliavano gli ammanettati e il telone del camion era chiuso sul rimorchio per evitare che i passanti vedessero il carico umano. Era autunno inoltrato e nel deserto del Serir (caratterizzato da materiale ghiaioso e sabbioso) la temperatura era rigida. “Siamo stati respinti in Algeria, lontani da tutto, senza acqua né alimenti. Lo stato algerino non è disposto a spendere soldi di tasca propria per rimandare a casa i migranti, perché sa che in ogni caso ci riproveremo ancora. Ogni volta ci si arrangia, si resiste alla sete e si torna a Gurugù. Nel sottobosco del monte ci sono anche personaggi che raccolgono i soldi dei candidati e ricompensano i tagliatori di reti metalliche. Non appena le guardie si voltano, questi personaggi entrano in azione coi loro arnesi, solitamente cesoie. Aprono un passaggio nella prima rete, poi nella seconda, e infine spariscono. Ti vengono proposte due tariffe per andare in Spagna: in patera (via mare), costa almeno mille euro; via terra, strisciando sotto le reti metalliche, costa solamente seicento euro. In fin dei conti, senza di noi, il business, da ambo le parti, andrebbe a rotoli. Mi sono imbattuto in ogni sorta di sfruttatori: doganieri, affittacamere, poliziotti corrotti. Sicché dormiamo con le scarpe ai piedi e gli occhi semiaperti, in attesa del balzo.” La testimonianza di Bandu materializza le scelte esistenziali di migliaia di giovanissimi africani, che si lanciano sulle strade dell’esilio in piroga, a bordo di taxi collettivi o camion da bestiame, a piedi, lasciandosi alle spalle il Sahel, il Sahara, foreste tropicali e uccelli rari. Bandu ha impiegato circa un anno e mezzo per percorrere la distanza che separa Banjul (capitale del Gambia) da Melilla. A un turista europeo sarebbero bastate probabilmente due ore.

Ceuta sta in un fazzoletto di terra incastonato tra il Marocco, il Mar Mediterraneo e lo Stretto di Gibilterra, che lo separa dalla Penisola Iberica. Dai balconi di Benzù, frazione dell’enclave spagnola, sono perfettamente visibili le forme suadenti di una montagna addormentata: la Mujer Muerta, Jebel Musa in lingua araba. “La frontiera è una multinazionale. Più gente, più rotte, più filo spinato: è matematico il calcolo. Il 16 febbraio 2014 un gruppo di ragazzi, nel tentativo di circumnavigare il molo e nuotare fino alla spiaggia, è stato raggiunto dai proiettili di gomma e dai gas lacrimogeni della Guardia Civil, i quali hanno causato quattordici morti e decine di feriti” racconta Reduan Jalid, attivista locale, da anni in prima linea nel monitorare e denunciare le sistematiche violenze lungo la frontiera meridionale d’Europa. “La barriera con il Marocco è stata costruita alla fine degli anni Novanta, con l’intensificarsi dei flussi migratori lungo la rotta subsahariana. Lo scorso anno sono iniziati i lavori per la sostituzione del filo spinato (installato nel 2005). Non soddisfatte, le autorità hanno innalzato il muro di altri tre metri e adesso arriva a sfiorare i dieci metri. Le persone fermate nel tentativo di scavalcare vengono immediatamente respinte in Marocco. Un trattamento simile viene riservato anche ai migranti che tentano di accedere a Ceuta via mare. La legge prevede che gli stranieri fermati mentre tentano di superare gli strumenti di contenimento possano essere respinti. Per i cittadini di origine subsahariana l’accesso alla prassi umanitaria è quasi impossibile, proprio per l’opera di contenimento realizzata sul versante marocchino, che rende difficile anche solo avvicinarsi al valico di frontiera. Non c’è la volontà politica di cambiare le cose. Come membro di alcune organizzazioni umanitarie, tra cui Alarm Phone, aiuto portando cibo caldo e coperte ai migranti nascosti al porto vecchio di Ceuta. Ogni giorno salgo a Benzù e ogni volta mi sembra di vedere un nuovo accampamento militare delle forze ausiliarie marocchine, segno che la loro presenza è stata rafforzata”. Un elicottero militare spia la città dall’alto, aumentano i posti di blocco lungo la strada che conduce al porto. “Il modello repressivo che vediamo oggi in Turchia, Ungheria o Grecia ha preso forma qui a Ceuta. Non c’è cambiamento, non c’è futuro, solo istigazione della paura e dell’odio. Era già tutto pensato dall’alto per legittimare la mancanza di diritti che a Ceuta non esistono o esistono solo sulla carta. 

Gli ingressi clandestini dal muro di Ceuta e Melilla sono diminuiti in volume e intensità per via del blocco che si sta realizzando lungo tutta la rotta migratoria dell’Africa subsahariana fino al Marocco. L’Europa sta pagando Paesi terzi per il controllo, il contenimento e la riammissione dei migranti”. Risuonano le identiche parole di Omar Nafi. Lo smartphone di Reduan squilla con insistenza: Alarm Phone avvisa che su sessanta migranti radunatosi al valico di Farkhana nelle ore notturne, ventisette sono riusciti a fare breccia ed entrare in suolo europeo. Tra loro immagino Bandu urlare finalmente Boza! (una sorta di parola magica in lingua fula, pronunciata per celebrare l’avvenuto salto della barriera), nient’altro che ‘Vittoria!’ dopo sette mesi passati a marcire sul monte Gurugù. I gabbiani portano l’odore sensuale della Spagna, visibile a poche leghe di lontananza, raggiungibile in un’ora scarsa di traghetto.  

Nei giardini esterni del CETI incontro Abdel Kadem, algerino giunto a Tetouan, sulle pendici del Jbel Dersa, grazie a un passaporto marocchino. Essendosi rasato la barba, Abdel ha tratti vagamente simili all’uomo stampato sulla prima pagina del documento falso. “Nella mia città d’origine, Tiaret, mi spegnevo lento come la fiamma di una candela e le coste europee sono troppo vicine per non provarci. Ho raggiunto Tetuan in aereo; la settimana scorsa ho pagato 2.600 euro a un trafficante locale per raggiungere Algeciras in moto d’acqua, ma lui mi ha lasciato sulle rive di Ceuta, imbrogliandomi. Il passaporto falso, nel frattempo, l’ho rispedito indietro (appena atterrato in aeroporto) in modo che possa essere utilizzato nuovamente da altri clandestini. È la prassi, una sorta di noleggio documenti”. Resta un mistero come Abdel sia riuscito ad attraversare longitudinalmente il Rif (regione prevalentemente montuosa che va dal Capo Spartel a Bouhajera) e insinuarsi tra i fori di Melilla. “L’etnia maggiore qua dentro è quella algerina: quattrocento presenti. Seguono i marocchini, con trecento individui, e poi tutti i subsahariani, non meno di mille. Sapendo che la capienza massima del CETI è di settecento unità, comprendi perché preferisco sopravvivere sopra agli scogli del porto. Se saltano le reti, - conclude Abdel senza specificare a chi si riferisca - è perché glielo permettono. Questo è terreno fertile per le mafie e corrompere una guardia è la cosa più semplice del mondo”. Intanto le notizie rimbalzano lungo l’asse settentrionale del Paese: periferia industriale di Selouane, 50 arresti, 12 feriti. Forze ausiliare distruggono accampamenti a Bekoya e Lakhmis Akdim. 

Matthias Canapini

Matthias Canapini è nato nel 1992 a Fano. Viaggia a passo lento per raccontare storie con taccuino e macchina fotografica. Dal 2015 ha pubblicato "Verso Est", "Eurasia Express", "Il volto dell'altro", "Terra e dissenso" (Prospero Editore) e "Il passo dell'acero rosso" (Aras Edizioni).

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