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Senegal: osare il ritorno
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Foto: M. Canapini
Nel novembre 2019, seguendo le principali rotte dei migranti/profughi lungo i confini d’Europa, ho trascorso circa un mese in Senegal, focalizzando l’attenzione sui “ritornanti”, ossia coloro che dopo anni trascorsi in Italia (o in Europa) hanno deciso di tornare a casa. Condivido un estratto di quel racconto corale, fatto di speranze, ingiustizie, pratiche economiche e solidali.
L’automobile di Mamadou solleva rivoli di pulviscolo rosso. La pioggia stria il cielo verticalmente. Decine di arti penzolanti barcollano a bordo di pick-up depressi lanciati verso Bamako, la porta d’ingresso. È metà ottobre, navighiamo nell’umidità. Karounga Camara è un personaggio poliedrico: conferenziere, autore, mental coach, imprenditore. Ha pubblicato di recente il libro Osare il Ritorno (dedicato alle diaspore africane in Europa), ed è da questo tassello che comincia l’intervista: “La ragione dell’emigrazione era l’Italia, ma il senso della vita il Senegal. Ho studiato matematica all’Università Cheikh Anta Diop di Dakar. Una volta laureato ho insegnato per dieci anni alle scuole superiori senza mai smettere di studiare per conto mio: turismo, comunicazione e marketing. Nel 2010 ho scelto di cambiare vita. Spinto dalla curiosità mi sono trasferito a Milano (dove già viveva mio fratello Harouna), salutando mia figlia neonata. Ho trovato lavoro come portinaio (a tempo indeterminato) presso la Residenza Buonarroti dell’Università Cattolica.
Durante i sette anni trascorsi in Italia ho continuato a formarmi in management ecoaching visitando i principali paesi europei, ma anche la Turchia, gli Emirati Arabi e il Nord Africa. Tornare è però più coraggioso che partire. Quando vai in Europa tutti si aspettano un rientro da vincitore: senti tanta pressione sulle spalle. Nel mio caso la molla finale è stata la morte di mia madre, nel 2015. Giorni durissimi, non sono riuscito nemmeno a partecipare al suo funerale. Dopo questo fatto e una lunga pausa di riflessione durata tre mesi, ho deciso di licenziarmi per avviare Senita Food, una piccola impresa che produce semilavorati per panettieri e pasticceri a Thiès, 75 chilometri a est di Dakar. Siamo tre soci. Per il momento sono l’unico stabile in Senegal. Mi piacerebbe invogliare altri imprenditori a investire in Senegal: un paese favorevole all’iniziativa economica privata, con una posizione geografica unica, stabilità politica, crescita economica e demografica. Si tratta di non aver paura di tornare: oggi ci sono più opportunità in Africa che in qualsiasi altra parte del mondo. L’Africa è il futuro e l’Europa dovrebbe ammetterlo. Oggi il Vecchio Continente ha estremo bisogno di noi e gli espatriati africani sono un patrimonio di cui non si immagina il vero valore. Nonostante i mass media continuino a parlare di crisi migratoria, tantissimi connazionali stanno ritornando dopo lunghi anni all’estero. Credo che accompagnarli seriamente nel realizzare i propri progetti potrebbe ridurre la spinta migratoria. Un’ondata di successi nella direzione opposta renderà chiaro a giovani e giovanissimi che è possibile realizzarsi restando in patria, de-costruendo gradualmente il mito dell’Occidente. Ricorda: 1+1 = 3, la tua conoscenza più la mia conoscenza fanno tre conoscenze.” La testimonianza di Karounga rientra nel quadro del progetto Partire e tornare, un’impresa per la vita promosso da LVIA (Associazione Internazionale Volontari Laici).
Nell’attesa di incontrare altri beneficiari del progetto condividiamo una moca di caffè italiano, invece della bevanda speziata ai chiodi di garofano venduta all’aperto. Cullati dai brani di Soulaimane Faye, fiancheggiamo un tratto della prima linea ferroviaria dell’Africa occidentale francese (oggi in disuso) che collegava Dakar a Saint-Louis. Sui binari rantola un asino. Discutiamo di treni e morti nel Mediterraneo. “La ferrovia, aperta nel lontano 1885, non è più in servizio. Un tempo potevi raggiungere Bamako, Tambacounda, Kébémer... emigrare è nel gene umano. È la storia del mondo, lo spostarsi. So da che cosa scappano i nostri giovani, come biasimarli? Ogni volta che leggiamo di un naufragio ci si stringe lo stomaco” rivela Mamadou, l’autista, che apparentemente non ha neppure trent’anni. In Senegal focalizzo l’attenzione sui ritornanti, sul senso inverso, sul mondo di sotto che ha mandato al diavolo i piani alti. Karoù ha l’accento ma ancor di più il carattere dei bergamaschi Doc, assimilato dopo i venticinque anni trascorsi in Italia, tra Bologna, Brescia e Bergamo. Gestisce un’azienda di tubi per l’irrigazione, riciclati ed eco-sostenibili; il raggio d’azione del business avviato si estende fino al Corno d’Africa. “È tutto ancora da costruire, qui. È questo che dico durante le formazioni ai migranti di ritorno e anche a quelli che se ne vanno. Qua puoi fare la vita che vuoi, ma conta che la concorrenza esiste come ovunque. È difficile lavorare con gli africani, ognuno pensa per sé. Io e mia moglie abbiamo maturato l’idea di scappare in Senegal anche per lasciarci alle spalle la mentalità chiusa dei paesotti bergamaschi, caratterizzati dall’oratorio e quattro anziani. In Senegal è tutto da inventare. I miei figli, Malick di 7 anni e Demba di 11, frequentano (per 300euro al mese) una scuola privata, superiore alla media italiana. Non è stato semplice ritornare, ho dovuto integrare i miei figli e poi me stesso, anche se sono nato qui... Il futuro in Africa è possibile.” Per certi aspetti ha una storia simile anche Gibril Diallo, 51 anni, che bivacca sotto un mango cresciuto selvatico davanti a un autolavaggio; Gibril vorrebbe acquistare l’esercizio commerciale, tuttora in stato d’abbandono, per la somma totale di 65.000 euro. Per sedici anni i marciapiedi di Roma sono stati la superficie sensoriale dell’uomo, Porta Furba la sua casa. “Mi trovavo ad Algeri per far visita a mia sorella. Volevo cambiare aria e imparare la lingua italiana. Ho fatto il vu cumprà per tantissimi anni, vendevo di tutto ma la vita era pessima: entrate incerte, stanze condivise, la nostalgia che mordeva lo stomaco. Nel 2008 sono tornato perché ho capito una cosa molto semplice: la gente corre tutta la vita dietro ai soldi, ma poi finisce sottoterra. Per inseguire un benessere fittizio non vedi crescere i tuoi figli. La chiave di tutto quanto è la semplicità: il sole, i sorrisi del Senegal, il cibo, vivere con poco. La peggior cosa invece è quando perdi la speranza, e i nostri giovani questo lo sanno, dunque emigrano. Stupidi. L’Europa non è il paradiso, non c’è bisogno di rischiare così tanto. È possibile vivere bene a casa propria. Eppure, i film, la propaganda, i media invogliano e il materialismo li logora dentro. Partono, sebbene il 95% affonda tra povertà, discriminazione, burocrazia. La colpa è vostra - dice sorridendo e appoggiandomi l’indice sul petto - che continuate a estrarre ricchezze e dei nostri governanti pieni di soldi che vi assecondano. Il popolo sa, ma non può fare nulla. Dunque, ci accontentiamo. So che qui molte cose non vanno: è sporco, c’è polvere ovunque, ma è casa mia. Sono nato a Thiès e a quarant’anni ci sono tornato. Ho avviato un bel lavoro. Guadagno 5.000 euro al mese, in Italia sarei disoccupato.”
Nel registro dei migranti intervistati da LVIA, cinquecento circa, si accendono frammenti segreti di mondo: luoghi di provenienza, nomi, mansioni prima e dopo l’immigrazione, i motivi del viaggio. Notto, insegnante. Tiuaouane, agricoltore. Djender, parrucchiere. Khombole, avvocato. Moussa Thian, trasportatore. Mor Mbengue, titolo di studio: Corano. Di Serigne Mustapha, meccanico di Thiès Nord con due figli e una moglie a carico, si dice: emigrazione forzata, rientro per perdita lavoro, integrazione facile. Bisogni: acquistare una piroga per poter pescare. È imprevedibile come il concetto di imbarcazione primitiva a remi, scavata in un tronco d’albero o fabbricata con scorze vegetali e pelli legate assieme, possa aprire un dibattito su temi più ampi. “Thiaroye è uno storico quartiere di pescatori che col tempo è stato inglobato da Dakar. Deve la sua notorietà al massacro di un reggimento della fanteria senegalese da parte dell’esercito francese, dopo il cessate il fuoco del 1944. Affacciato sul mare, questo quartiere periferico è stato messo a dura prova dall’arrivo della modernità. Le industrie hanno rapidamente preso il posto degli orti” racconta il fidato Mamadou, sgommando sotto al mastodontico Monumento al Rinascimento Africano, alto quarantanove metri e rivolto verso l’oceano. “In seguito ad accordi iniqui sulle licenze ittiche, le navi da pesca industriali giapponesi ed europee stanno distruggendo i fondali al largo della penisola, sottraendo ai pescatori la loro fonte di sostentamento. Le associazioni di donne addette alla salatura e all’affumicatura del pesce sono analogamente colpite. Con questa disoccupazione endemica, il labirinto di Thiaroye, un tempo affollato, è diventato un posto malfamato. Dato che non esistono piroghe abbastanza potenti per andare in America, ai giovani rimasti a casa non resta che sognare l’Europa.” Ho il sentore che la pesca a strascico al largo della capitale possa rappresentare a suo modo un conflitto. Una guerra puramente economica, ma che a lungo andare potrebbe provocare seri danni quanto un bombardamento su Donetsk.
Matthias Canapini

Matthias Canapini è nato nel 1992 a Fano. Viaggia a passo lento per raccontare storie con taccuino e macchina fotografica. Dal 2015 ha pubblicato "Verso Est", "Eurasia Express", "Il volto dell'altro", "Terra e dissenso" (Prospero Editore) e "Il passo dell'acero rosso" (Aras Edizioni).