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Shhh, lavoro per la sostenibilità ma non lo dico
Cambiamento climatico
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Foto: Unsplash.com
Funziona così. Che quando molti fanno qualcosa di buono per finta, quelli che lo fanno per davvero non lo dicono, perché pensano che nessuno gli crederebbe e perché alla fine è meglio andare avanti per la propria strada senza clamore e fare il giusto senza esporsi a inutili polemiche. In parole molto semplici è questo quello che succede quando si parla di greenhushing, fenomeno ben sintetizzato dal lemma inglese: mettere a tacere il verde, ovvero le azioni volte a potenziare la sostenibilità.
Se ormai abbiamo molta familiarità, o quasi, con il greenwashing, l’ambientalismo di facciata, quello che spinge molti marchi a comunicare a tamburo battente una svolta ecologica che il più delle volte si limita a una sola linea di prodotti, o magari a una sola materia prima, nei casi peggiori solo alla confezione che si fa verde ammiccante ma il cui contenuto continua ad avere molto poco a che fare con la sostenibilità… con il greenhushing siamo meno confidenti, anche perché ci sembra strano che un’azienda che davvero si impegni per migliorare in senso ecologico la propria filiera non abbia desiderio e non trovi vantaggio nel farlo sapere ai consumatori.
Il fenomeno però è diffuso: lo dimostra una ricerca effettuata da South Pole, società di consulenza svizzera che ha intervistato referenti di circa 1200 aziende che si erano prefissate obiettivi importanti per la riduzione del proprio impatto ambientale, soprattutto rispetto alla riduzione delle emissioni di gas serra. Quasi tutte si erano poste obiettivi ambiziosi volti all’azzeramento delle emissioni nette di gas serra e in linea con le indicazioni del mondo scientifico volte al contenimento del riscaldamento globale. Queste scelte sono state prese motivate non da subdole manovre di marketing, ma dalla volontà di mostrare ai propri clienti quanto le ditte fossero attente alle questioni ambientali. Di tutte queste virtuose realtà, però, 1 su 4 intende comunicarlo pubblicamente. Il che pone subito almeno due questioni. Da un lato quella della consonanza tra azione e obiettivo: se voglio farlo perché il mio consumatore sappia quanto ci tengo, perché contemporaneamente non glielo comunico? Dall’altro una domanda più generale: perché non ho interesse a dirlo, anzi preferisco tacere?
La risposta che danno diverse analisi è semplice, anche se pone a sua volta questioni significative: molte realtà preferiscono non comunicare i loro obiettivi per evitare di essere tacciati di greenwashing e rischiare di compromettere la propria reputazione, anche alla luce di uno scetticismo diffuso che rende i consumatori sempre più attenti e sempre meno creduloni (almeno nella quota ambientalista) alle promesse di facciata di molte aziende.
Come ricordano anche i colleghi di Lifegate, l’Unione europea prevede, con la direttiva Corporate sustainability reporting (CSRD), di imporre a circa 50mila organizzazioni (anche piccole e medie imprese quotate) di pubblicare, entro il 2026, dati raccolti secondo standard condivisi che riguardino ambiente, società e governance (ESG). Poi ogni realtà sarà libera di diffonderli o meno, ma certo è che il silenzio sulla comunicazione di questi temi non è solo un pragmatico “fare anziché parlare”, ma pone qualche problema su cui riflettere. È pur vero che dedicare la maggior parte delle risorse alle azioni anziché alla loro comunicazione differenzia nettamente le imprese virtuose da quelle che intendono solo millantare a suon di pubblicità una svolta sostenibile, ma comunicare i propri obiettivi e le proprie azioni anche quando si rivelano più impegnative del previsto e diffondere i propri risultati contribuisce a convalidare una strada che porta a un cambiamento nel sistema. D’altro canto, la credibilità dei piani di transizione climatica non è sempre immediata: molte aziende hanno idee confuse e brancolano nella nebbia, come mette in luce una ricerca svolta da CDP, organizzazione non governativa che si occupa di valutare l’impatto ambientale non solo di aziende e compagnie, ma anche di enti, città e Stati.
Dunque sì, agire è importante ma è importante anche comunicarlo e comunicarlo alla luce di una strategia chiara, definita e trasparente, che sia sostenibile per l’azienda stessa e che diventi anche stimolo a spronare un cambiamento collettivo che, se tenuto invece sotto silenzio dai singoli, farà molta più fatica a diventare positivamente contagioso.
Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.