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Le soluzioni di COP9, ma con poche decisioni
Cambiamento climatico
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60 miliardi di danni economici per disastri climatici, 100 mila morti per il caldo dell'ultima torrida estate (7000 solo in Italia). Alla recente Climate change convention (Cop 9) di Milano si snocciolano dati drammatici, ma decisioni poche. Eppure le soluzioni innovative sono già tante. La rivista "Volontari per lo sviluppo" le ha raccolte in un articolo uscito sul numero di gennaio-febbraio 2004.
di Tiziana Montaldo e Maurizio Dematteis
Il cambiamento climatico non è una minaccia per il futuro, ma una realtà sotto gli occhi di tutti. L'ultimo prudente rapporto dell'Intergovernamental panel on climate change (Ippc), del 2001, snocciola gli effetti della "febbre" del pianeta: un incremento della temperatura mondiale di 0,6 gradi nell'ultimo secolo, una riduzione della copertura nevosa del 10% dagli anni '60, una riduzione dei ghiacciai (che in Italia hanno perso circa il 40% della loro superficie storica); una crescita del livello del mare da 0,1 a 0,2 metri, con previsioni di salita a 0,9 entro il prossimo secolo (e un tasso 10 volte più veloce di quello degli ultimi 3 mila anni), ed evidenti cambiamenti nella distribuzione delle piante e nelle popolazioni umane. E intanto, nella sola India sono morte ben 100 mila persone per il caldo dell'ultima torrida estate; e altre 20.000 in Europa (7000 solo in Italia), 60.000 negli Usa, 50.000 in Pakistan.
Rischio alluvioni
Ma a preoccupare di più sono le precipitazioni e la maggiore frequenza degli eventi estremi, come cicloni tropicali e alluvioni. Se negli anni '70 la terra è stata flagellata da circa mille catastrofi naturali, negli anni '90 sono state ben 2700. Il rischio di inondazioni per molti insediamenti umani passerà da 70 a 250 milioni per anno, soprattutto in alcune aree dell'Africa e del Sud Est asiatico, e comporterà tra l'altro la diffusione di malattie come il colera e la malaria. E i disastri ambientali costano. "Il 2003 è stato un anno catastrofico - spiega Thomas Loster, geografo - si stima che i danni economici ammontino a circa 60 miliardi di dollari in tutto il mondo: il 10% in più dell'anno precedente". Loster, a capo di un gruppo di studio delle Nazioni Unite che si occupa dell'impatto economico dei cambiamenti climatici, denuncia che negli ultimi 40 anni i costi sono sestuplicati e la prima risposta è stata che numerosi gruppi assicurativi internazionali hanno deciso di non coprire più dai rischi alluvione le costruzioni realizzate nelle aree di esondazione dei corsi d'acqua.
Rilancio di Kyoto
Di tutti questi temi si è parlato alla Climate change convention (Cop9), la conferenza mondiale sul clima che si è svolta a dicembre a Milano. 120 paesi partecipanti e una folta delegazione Usa schierata per minare il trattato. D'altra parte, gli statunitensi si confermano come i maggiori inquinatori mondiali, con un aumento del 17% delle emissioni dal '90 e una produzione di Co2 pro capite di 4,5% (contro l'1,5% italiano). Il Wwf dà un giudizio globale positivo ricordando che la maggior parte delle regole sancite dal protocollo di Kyoto vengono confermate. Germania, Filippine e Regno Unito rinnovano il proprio impegno a voler mantenere l'innalzamento della temperatura globale al di sotto dei 2 gradi, considerato un punto di non ritorno dagli scienziati di tutto il mondo. Nota dolente è la mancata ratifica da parte della Russia, che sembra però intenzionata a firmare subito dopo le elezioni presidenziali che si terranno in primavera. Più critico Andrea Poggio, direttore di Legambiente e responsabile della delegazione al Cop9. Che a riguardo scrive: "È passata senza infamia e senza lode, così come si annunciava". E ricorda la defezione del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi che, nel '94, aveva sostenuto che il clima cambiava dai tempi di Giulio Cesare e c'era tutto il tempo per occuparsene in futuro. Inoltre punta il dito sulla situazione italiana con un incremento delle emissioni del 7,3% a fronte di un impegno a ridurle del 6,5%; il nostro paese vanta la posizione di fanalino di coda anche per gli investimenti in energie rinnovabili (lo 0,9% del Pil). Decisione cruciale appare quella di considerare senza mezzi termini le foreste come un importante serbatoio di ossigeno, capace di trasformare il carbonio prodotto dalla combustione del petrolio. Nel documento finale però è passato anche un articolo che permette la riforestazione ogm, e Poggio ricorda la risposta a caldo del ministro dell'Ambiente, Matteoli: "Tanto le foreste non si mangiano". Ma se, come prevede la World Energy Outlook, tra il 2001 e il 2025 la domanda energetica crescerà del 58%, quali sono le proposte alternative per limitare l'inquinamento?
La materia delle stelle
Fuor dall'idrogeno non v'è salvezza, sembra essere il motto di numerosi ricercatori e ambientalisti. Jeremy Rifkin, presidente della Fondazione sui trend economici (FoEt) e autore di 16 libri tradotti in oltre 20 lingue, non ha dubbi: è l'idrogeno l'unica risposta sicura. La nostra società iper industializzata richiede sempre più energia che è prodotta da carbone, petrolio, e gas naturale. Petrolio e gas naturale si stanno pericolosamente avvicinando al picco produttivo che raggiungeranno rispettivamente nel 2037 e nel 2020. Ma il fenomeno è nel contesto di una forte crisi globale legata a tre ragioni: l'aumento verticale dei prezzi, la concentrazione delle riserve petrolifere nel Golfo Persico sempre più anti-occidentale (che comporta costi militari per assicurarsi il dominio delle fonti) e il fatto che i combustibili fossili producono gas serra causa dell'aumento della temperatura globale. "Il rischio che corriamo - dice Rifkin - è quello di svegliarci un mattino e scoprire che siamo intrappolati su un pianeta che si sta riscaldando ed è troppo tardi per andarcene". E aggiunge: "Non si può pensare una società diversa dall'idrogeno", ma ammette: "non c'è possibilità di fare il cambiamento senza la volontà politica". E mentre l'Europa sta mettendo in atto questa rivoluzione grazie alla partnership tra istituzioni locali e pubbliche secondo le regole "pace, sostenibilità, inclusività e diversità", negli Stati Uniti le aziende si starebbero innervosendo. Se il futuro è l'idrogeno, gli Usa non possono lasciarne il mercato all'Europa. Ma chi sono i controllori pare a Rifkin un problema cruciale. Se i 2/3 della popolazione mondiale non hanno mai fatto una chiamata telefonica, chi potrà pagare il petrolio 30 dollari a barile? In Usa, l'amministrazione Bush avrebbe in mente un cavallo di Troia: lasciare il dominio delle energie rinnovabili alle grandi industrie del carbone, del nucleare e del petrolio (come la Shell) producendo idrogeno nero (derivato dai fossili). Rifkin: "Ci vuole una road map per l'idrogeno. Il testamento è questo: energie rinnovabili, potere alla gente e idrogeno verde". E conclude: "Tutto il mondo guarda all'Europa". Carlo Rubbia, commissario straordinario dell'Ente nazionale per le nuove tecnologie, l'energia e l'ambiente (Enea) e premio Nobel per la fisica, punta il dito sui finanziamenti e denuncia come gli Usa investano solo lo 0,9% del Pil nelle energie rinnovabili, cioè tanto quanto nel tabacco e nelle bevande.
Ma quanto mi costi?
David Garman, del Ministero dell'Energia degli Usa, ribadisce che sul medio termine il suo paese "guarda al gas naturale come fonte alternativa al petrolio, perché la produzione di energia da fonti rinnovabili richiede processi costosi. Le celle combustibile all'idrogeno creano molti problemi e dunque il governo americano prevede entro il 2010 di vendere gas naturale alle stazioni di servizio al costo di 1 dollaro al kg". Il gas naturale sembra un passo intermedio inevitabile per molti paesi che non vogliono o non possono investire nell'idrogeno. Con costi enormi. Basti pensare che una cella a combustibile costa 3 mila euro e per una Seicento all'idrogeno ne servono 250. Il governo islandese, pioniere in questo settore, ha investito 5 miliardi di euro. E per il 2007 ha pianificato di sostituire tutti i suoi bus pubblici con quelli a idrogeno. Il tutto è gestito da un società in mano per il 51% alla VirstOrka (composta da università, governo e singole aziende), alla Daimeler Chrysler, alla Hydro e alla Shell. In Italia sono in sperimentazione alcuni modelli di bus nella provincia di Torino e alla Bicocca di Milano, ma la Fiat conta di mettere in produzione la prima auto all'idrogeno nel 2020.
Fine di un'era
A partire dalla Conferenza di Rio del '92 si è cominciato a parlare di "sviluppo sostenibile". Ma oggi c'è qualcuno che comincia a dubitare di queste due paroline magiche. Perché se lo sviluppo è crescita, dicono gli scettici, lo "sviluppo sostenibile" di cui si parla oggi non ha più senso. Le risorse naturali e il pianeta non possono reggere oltre la crescita dell'economia, nemmeno con "catalizzatori" e "regole sociali".
Capofila degli anti-sviluppisti è sicuramente Serge Latouche, che già a partire dal Social forum di Parigi del novembre 2003 sosteneva che il mondo è entrato nella "quinta estinzione della specie", nel corso della quale proprio l'uomo sarà la vittima prestabilita. A meno che noi tutti non riusciamo ad abbandonare velocemente la strada senza uscita della crescita. Magari lentamente, in maniera il più possibile indolore e per tappe. Ma una cosa è certa, il pianeta non ce la fa più. Se non diamo immediatamente inizio all'era della "decrescita sostenibile", l'uomo non avrà scampo.
La decrescita sostenibile
Serge Latouche tiene a precisare che la sua proposta non è una presa di posizione ideologica. La decrescita sostenibile deve essere una cosa reale, un passaggio epocale dalla società dello sviluppo a quella del post-sviluppo. Si tratta di fare "di necessità virtù": da una parte frenare lo sviluppo per evidenti motivi ambientali, dall'altra creare una realtà in cui cresca la qualità della vita, una società in cui, come nel neolitico, gli uomini debbano lavorare solo due ore al giorno per procurarsi il cibo. Una società in cui l'altruismo e la cooperazione vengano recuperati e messi al centro, al posto dell'individualismo e dell'accumulo. In cui il razionale riesca finalmente a trionfare sull'irrazionale. Basta, ad esempio, con attività inutili come la pubblicità o dannose come lo spostamento continuo delle merci nel mondo. Bisogna attuare una vera e propria rivoluzione culturale con parole d'ordine quali riduzione e delocalizzazione.
Ridurre l'inquinamento, le ore di lavoro, i consumi superflui. Ma anche aumentare il prezzo del chilometraggio, addebitando i reali costi ambientali in modo da sviluppare maggiormente la delocalizzazione delle merci.
Tutto questo, sempre secondo Latouche, deve partire dai paesi del Nord del mondo, che devono creare modelli alternativi cui i paesi del Sud possano ispirarsi.
Una teoria sicuramente affascinante, anche se Latouche non nasconde che, essendo le prime vittime di questa rivoluzione nonviolenta proprio quei privilegiati che dovrebbero promuoverla, i modelli attuativi sono ancora tutti da scoprire.