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L’accelerazione blu e il nostro rapporto con gli Oceani
Cambiamento climatico
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Foto: Unsplash.com
Di pochi giorni fa un’altra nefasta notizia: al largo delle coste dello Sri Lanka, non lontano dal principale porto della capitale Colombo, è affondata una nave mercantile immatricolata a Singapore, la MV X-Press Pearl, un mostro di acciaio che solcava i mari con i suoi oltre 180 metri di lunghezza. Non una nave qualsiasi, ma una portacontainer (ne trasportava ben 1486) che bruciava da giorni e che a bordo aveva petrolio, prodotti cosmetici e agenti chimici di varia natura, tra cui 25 tonnellate di acido nitrico e una grande quantità di lubrificanti. Un disastro ambientale che ha preso la forma dell’ennesimo incubo, avverando il peggiore tra gli scenari possibili: la dispersione di queste sostanze in mare.
Una catastrofe ecologica irreversibile le cui conseguenze si estendono potenzialmente per chilometri di costa: nei pressi della spiaggia di Negombo, a circa 40 chilometri dalla capitale, sono già state rintracciate macchie oleose, non ancora analizzate ma di intuibile provenienza, e il Governo dello Sri Lanka ha vietato la pesca per un’area di 50 km. Sono state avviate le indagini di routine, tra cui una missione per il recupero di quella che corrisponde alla “scatola nera” delle navi e un dispiego di forze militari e della marina impegnate a ripulire la costa, ma non sono notizie che purtroppo rechino granché conforto, dato che ormai la situazione appare drasticamente irrecuperabile.
Nonostante l’aiuto del Governo indiano infatti, che ha inviato esperti con equipaggiamento specializzato per contenere le fuoriuscite di sostanze chimiche, i veleni a bordo sono parecchi e non si tratta soltanto di questo: su quelli che sono tra i litorali più ricchi di biodiversità dell’Asia meridionale sono arrivate tonnellate di granelli di plastica destinati all’industria degli imballaggi. Un danno inestimabile aggravato dalle condizioni meteorologiche, che a causa di onde molto alte, pioggia e forte vento hanno impedito ai soccorritori di individuare soluzioni alternative, anche se comunque non in grado di garantire un impatto nullo o perlomeno circoscritto (come per esempio il traino della nave ancora più al largo).
Un fatto che ci impone ancora una volta un’urgente riflessione sul rapporto tra tutela degli ecosistemi oceanici e attività economiche a grande impatto, come lo sono i commerci internazionali ma anche le miniere sottomarine, l’industria della pesca, lo sfruttamento di petrolio e gas e le conseguenti trivellazioni subacquee con le pesanti ripercussioni sulla sopravvivenza stessa degli abitanti degli abissi. Insomma, l’economia oceanica è in espansione, ma gli effetti di questo boom sono ancora sottostimati e chi ne sta pagando il prezzo?
È la domanda che emerge da uno degli episodi di una rubrica interamente dedicata all’esplorazione delle fragilità degli oceani, Oceans 21, che dedica una puntata proprio a questi temi. Alla luce di una domanda che rimane trasversale e attuale: quali conseguenze comporta lo sfruttamento economico degli oceani per i suoi ecosistemi? Sarebbe ingenuo pensare di rinunciare in toto alla crescita economica per preservarne gli equilibri: non siamo in grado di farlo, e prima ancora non siamo in grado di accettarlo e meno ancora lo desideriamo. Si tratta di una prospettiva utopica e irrealizzabile. È necessario però bilanciare questa crescita con azioni di tutela degli habitat sottomarini e costieri, non solo per arginare la possibilità di tragedie ambientali come questa recente avvenuta in Sri Lanka, ma anche per preservare quelle economie di piccola-media dimensione che garantiscono la sovranità alimentare di molte comunità costiere nel mondo e che altrimenti diventano sempre più sole e vulnerabili e a rischio di derive come la pirateria e le attività illegali.
Si tratta di un tema scottante che coinvolge molti portatori di interesse, un fenomeno che Jean-Baptiste Jouffray, ricercatore post-doc presso il Resilience Centre dell’Università di Stoccolma, descrive con un termine specifico: l’accelerazione blu. Un fenomeno che ha interessato gli oceani nell’ultimo ventennio e la cui definizione risulta di facile intuizione: se per millenni l’umanità ha utilizzato gli oceani come fonte di cibo e come un mezzo di trasporto, negli ultimi anni questo sfruttamento ha raggiunto livelli senza precedenti per tipologia e intensità, fino alla costruzione di miniere sotto i fondali marini per l’estrazione di manganese, nickel e cobalto. E quella che sembrerebbe una “banale” attività di asporto di noduli di rocce ricche di questi metalli, si traduce però nella privazione di habitat specifici per creature come i coralli e le spugne, nonché di aree che immagazzinano rilevanti quantità di CO2 assorbita dagli oceani.
L’8 giugno scorso abbiamo celebrato la Giornata mondiale degli Oceani, utilizzata dai più per parlare della salvaguardia di delfini, tartarughe marine, squali, cause lecite e indubbiamente meritevoli di attenzione, senza però dimenticare che la tutela degli ambienti marini non riguarda solo chi vive sott’acqua. Gli Oceani sono per esempio anche la casa di centinaia di specie di uccelli e il riferimento culturale, economico e sociale per moltissime comunità umane. Facciamo dunque in modo che in questa casa si possa ancora abitare con dignità, pensando al futuro.
Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.