Il petrolio crolla: a rischio la conversione green

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Foto: Unsplash.com

Il Fondo Monetario Internazionale lo ha chiamato The Great Lockdown. La quarantena e l’isolamento forzato, che in Italia ha già toccato i due mesi di durata, ha scatenato una crisi sociale ed economica senza precedenti, a detta di molti inevitabile viste le enormi perdite umane e gli effetti di talune falle interne al sistema sanitario di nazionale. Una crisi che poteva essere gestita meglio? Non sono qui a fare l’inquisitore, e non vorrei dilungarmi. Senz’altro ci sono stati paesi più lungimiranti e meno impreparati, ma sarà la Storia a giudicare, per quanto la narrazione politica in Italia tenda sempre a riscriverla a suo piacimento e vantaggio, sfoderando la solita sfilza di baggianate da talk show. Un altro, però, degli effetti, altrettanto preoccupanti, previsto in questi mesi, ma forse non in questa magnitudine, è il crollo del prezzo del petrolio, che per la prima volta da oltre vent’anni ha raggiunto quotazioni negative.

In questi giorni, infatti, le società petrolifere stanno vendendo barili di petrolio a prezzi irrisori, a volte sotto zero (in Texas fino a $ -40), col solo obiettivo di mantenere attiva la catena produttiva. Cosa è successo? La repentina diminuzione della mobilità umana e delle attività produttive, per effetto del coronavirus, ha decimato la domanda di petrolio e prodotti derivanti da esso. Quindi, i sistemi di stoccaggio hanno iniziato a riempirsi e gli operatori stanno faticando a trovare spazio per immagazzinare tutto il greggio in eccesso (ricorrendo a varie petroliere e navi cisterna), nella speranza che tornino prezzi migliori. Inoltre, come segno di quanto sia diventato distorto il mercato, i prezzi delle spedizioni stanno salendo a livelli stratosferici. Si intuisce che a queste condizioni non è più sostenibile produrre e trasportare petrolio. Nel lungo periodo il prezzo deve essere sufficientemente alto da coprire i costi di produzione. Senza prezzi più adeguati non vi sarà offerta sufficiente per ripristinare la crescita e ciò potrebbe causare una serie di inadempienze a cascata sui mercati finanziari e un duro colpo da assorbire per il settore bancario. 

Questo cosa vuol dire? Grandi attori dell'industria petrolifera, produttori e raffinerie, stanno già chiudendo i propri stabilimenti, in primo luogo negli Stati Uniti e Messico, dove il debito sovrano è già stato declassato a causa dei guai nei quali naviga la compagnia petrolifera statale Pemex. E dal petrolifero, ahimè, dipendono tanti altri settori lavorativi. Ciò significa perdite di posti di lavoro, fallimento di aziende, e difficoltà per le banche che le sostengono e impatto sulle economie locali. A poco è servito l’accordo dei leader mondiali del petrolio (OPEC) a unire gli sforzi per tagliare la produzione in maniera ordinata. D’altronde, le notizie per i prossimi mesi sono tutt’altro che incoraggianti: il mercato dei futures ci dice che l’abbattimento dei prezzi potrebbe prolungarsi per parecchi mesi, viste le caute riaperture nei mercati occidentali (e i rischi di una nuova ondata di contagi); se mai dovessero ritornare ai livelli pre-crisi

L'Arabia Saudita e la Russia in primis, per una volta mettendo da parte gli amari sapori reciproci, col resto dell'alleanza OPEC han deciso di limitare ulteriormente la produzione di oltre il 20%, ovvero 9,7 milioni di barili al giorno. Saudi Aramco, la società di proprietà statale, e le compagnie russe si stanno già muovendo per raggiungere l'obiettivo. Ma anche così, potrebbe non essere abbastanza. Attualmente ogni settimana vengono immagazzinati 50 milioni di barili di greggio, sufficienti per alimentare Germania, Francia, Italia, Spagna e Regno Unito messi insieme. A questo ritmo, si stima che lo spazio di stoccaggio terminerà entro giugno, generando il caos. Va sottolineato che il tema interessa un nutrito gruppo di paesi produttori, che stanno soffrendo per la caduta dei prezzi, dall’America Latina, all’Africa, al Medio Oriente. Tra questi, per i paesi più poveri, il petrolio rappresenta una voce indispensabile per gli introiti statali, coi quali promuovere politiche di riattivazione economica ed assistenza sociale per le categorie più vulnerabili, specialmente in questi frangenti.

Ora, in tutto questo uragano di lutti, drammi umani e sociali che ci hanno addolorato nelle scorse settimane, vi è un aspetto da valorizzare. Naturlamente, anch’io mi accodo a coloro che sottolineano i palesi, inebrianti impatti positivi sull’ambiente e sul clima che la quarantena ha portato con sé, la qualità dell’aria, dei fiumi, dei mari, il ripopolamento e riappropriamento degli animali di luoghi che appartengono a noi tanto quanto appartengono a loro. Sebbene noi ne abbiamo succhiato freneticamente la linfa vitale dalla notte dei tempi, sfruttando e saccheggiando risorse andandocele a cercare addirittura nelle viscere del pianeta, e solo recentemente sembra che ce ne siamo accorti. Bene, ci voleva l’apocalisse, la paura, quella vera, che cambia l’espressione sui volti delle persone, che obbliga a una profonda autoanalisi sulle colpe e responsabilità delle nostre generazioni, a causare il blocco totale e concedere un pò di respiro alla Madre Terra.

E naturalmente, mi aggiungo a quelli che sostengono che la storica precipitazione del prezzo del petrolio dimostri, ancora una volta, la necessità di riconvertire e diversificare le nostre economie, i nostri investimenti, le fonti energetiche da cui attingere. Il coronavirus è visto come un’opportunità più unica che rara per creare economie più verdi anche dallo stesso FMI. Io credo che ciò che questi giorni ci stiano insegnando è che costruire un futuro di energie rinnovabili da affiancare al petrolio, per pian piano scalzarlo dal suo ruolo egemonico, non solo aiuterebbe il clima (e tutti noi di conseguenza), ma, importantissimo, garantirebbe una maggiore stabilità finanziaria ed economica. Purtroppo però, di per sé il crollo dei prezzi del petrolio non è positivo per il clima, poiché le nostre economie, le politiche dei governi sono ancora inevitabilmente intrecciate al petrolio e all’industria petrolifera, che certamente dovrà perdere fette di mercato, ma senza creare un vuoto produttivo che si ripercuote in modo ancor più dannoso per lavoratori, famiglie e imprese.

Non può esserci una rapida transizione verso un'economia verde se non ci sono ancora fonti energetiche alternative capaci di sostituire il volume di attività economiche quotidiane che il petrolio mantiene in piedi. Il recupero dei progetti di conversione energetica devono necessariamente passare per una rimessa in marcia dell’economia globale. È, altresí, auspicabile che la domanda di petrolio non raggiungerà più di 100 milioni di barili al giorno. Ma non ci sarà alcuna ripresa economica sostenibile dalla chiusura globale che non coinvolga una ripresa della domanda di petrolio e beni dipendenti dal petrolio.

Marco Grisenti

Laureato in Economia e Analisi Finanziaria, dal 2014 lavoro nel settore della finanza sostenibile con un occhio di riguardo per l'America Latina, che mi ha accolto per tanti anni. Ho collaborato con ONG attive nella microfinanza e nell’imprenditorialità sociale, ho spaziato in vari ruoli all'interno di società di consulenza e banche etiche, fino ad approdare a fondi d'investimento specializzati nell’impact investing. In una costante ricerca di risposte e soluzioni ai tanti problemi che affliggono il Sud del mondo, e non solo. Il viaggio - il partire senza sapere quando si torna, e verso quale nuova "casa" - è stato il fedele complice di anni tanto spensierati quanto impegnati, che mi hanno permesso di abbattere barriere fuori e dentro di me, assaporare panorami, odori e melodie di luoghi altrimenti ancora lontani, appagare una curiositá senza fine. Credo in un mondo più sano, equilibrato ed inclusivo, dove si possa valorizzare il diverso. Per Unimondo cerco di trasmettere, senza filtri, la veritá e la sensibilità che incontro e assimilo sul mio sentiero.

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