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I confini del mercato del carbonio
Cambiamento climatico
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Foto: Unsplash.com
L’articolata lotta al cambiamento climatico ha assunto tante sfaccettature quante sono le numerose iniziative germogliate in questi ultimi anni a difesa dell’unico pianeta che abbiamo. Il fatto che questa sia la decada della difesa dell’ambiente e del clima lo dimostrano le ingenti risorse pubbliche mobilitate, il mirino dei maggiori fondi di investimento, così come l’universo sterminato di organizzazioni pubbliche e private, agenzie for profit e senza scopo di lucro, fondazioni di ricerca che lavorano a servizio del clima e della sostenibilità. L’Europa si è saputa contraddistinguere in questi anni promulgando tante misure incisive, delle quali lo European Green Deal e il Next Generation UE rappresentano solo la punta dell’iceberg. Andrebbero citate altre politiche come L’Emission Trading Scheme o altre iniziative dei singoli stati per ridurre le emissioni di gas a effetto serra verso una transizione ecologica ancor più sollecitata da un anno pandemico in cui abbiamo messo in discussione i nostri stili di vita. Tuttavia, appena ci allontaniamo dall’UE, queste regole nazionali o comunitarie tendono ad allentarsi o a scomparire. Ecco perché negli ultimi anni i mercati volontari del carbonio hanno assunto un ruolo sempre più centrale.
I mercati del carbonio sono mercati in cui vengono scambiate emissioni di gas serra in forma di crediti (un credito equivale a una tonnellata di CO2 che si è evitato di disperdere nell’ambiente), che consentono alle aziende di compensare le proprie emissioni “in eccesso” acquistando certificati di crediti di carbonio da imprese o progetti, questi sì ecologicamente virtuosi, che incorporano le emissioni che sono riusciti ad abbattere o sequestrare. Queste piattaforme consentono così, da una parte, alle aziende di de-carbonizzarsi, e dall’altra assicurano “un premio ambientale” in qualità di entrate aggiuntive ad imprese e iniziative il cui modello di business si configura particolarmente rispettoso dell’ambiente. Parliamo di imprese e progetti di energia rinnovabile, riforestazione e gestione sostenibile del territorio, pratiche innovative nell’agricoltura e nell’allevamento, transizione da uso di combustibili fossili a combustibili green, gestione e riciclaggio rifiuti, compost, e così via. Prevalentemente localizzate in paesi in via di sviluppo, laddove generalmente si è ancora riluttanti a imporre tetti massimi di emissioni - anche perché ben lontani dai nostri record di paesi industrializzati – o non si sono stabiliti incentivi green particolari.
Come dice il termine, questi mercati funzionano su base volontaria: le aziende acquirenti non sono obbligate per legge a contenere la loro impronta complessiva di carbonio, ma sono spinte da considerazioni etiche o reputazionali. È giusto dire che i progetti non si auto definiscono emittenti di crediti di carbonio, bensì vi sono dei criteri di ammissibilità da rispettare. Innanzitutto, il progetto deve dichiararsi “additional”, vale a dire che non sarebbe stato realizzabile senza l’apporto fondamentale dell’impresa in questione: semplicemente non sarebbe esistito, perché non vi è un’infrastruttura legale che lo incentivi, non è giudicata pratica comune nel paese di riferimento, e l’impresa trae giovamento dagli introiti del carbonio venduto per la propria auto sostenibilità. Quest’ultimo punto è rilevante, in questo senso si cerca di sostenere le aziende più piccole e meritevoli per il loro potenziale di carbonio, che altrimenti faticherebbero nel conseguire finanziamento esterno. Vi è poi un ultimo punto: le emissioni ridotte non devono essere doppiamente conteggiate, cioè non possono essere in conflitto con richieste avanzate da qualsiasi altra organizzazione.
Gli stessi criteri devono essere vagliati da società di consulenza specializzate, che accompagnano i progetti nel processo, e infine certificati da un revisore terzo che attesterà l’effettiva facoltà di emettere i “crediti” di carbonio. Insomma, tutt’altro che una passeggiata, considerando inoltre gli elevati costi di registro e implementazione, ed i quasi due anni che trascorrono dall’analisi preliminare di un progetto fino alla sua certificazione. Ciò nonostante, il mercato delle emissioni ha continuato a crescere, anche durante la pandemia, spinto dall’irrefrenabile tendenza, ormai globale, delle aziende a convertirsi in carbon-neutral quanto prima.
Il percorso tipico per raggiungere le emissioni nette zero è il seguente: un'azienda identifica e segnala tutte le emissioni di cui è responsabile, cerca di ridurle il più possibile, dopo di che investe in progetti che diminuiscono emissioni altrove o le estraggono dall'aria, per raggiungere finalmente una compensazione netta. Almeno sulla carta. Essendo mercati volontari, sono ancora in gran parte non regolamentati e, purtroppo, esiste ancora molta, troppa, discrezione su metodi e processi di calcolo delle emissioni. Oltre ai numerosi casi scoperti di doppio conteggio o di opinabile “addizionalitá”. Ad esempio, una società mineraria potrebbe contare le emissioni derivanti dall'estrazione e dalla lavorazione del minerale, ma non le emissioni prodotte dal trasporto. Un progetto di riforestazione è additional nel momento in cui una legge locale incoraggi la compensazione delle emissioni, rispetto al pagamento di una multa?
Vi sono poi le preferenze delle aziende su quali progetti fare affidamento. Il gigante petrolifero Shell, ad esempio, prevede che raggiungerà le emissioni nette zero entro il 2050, anno in cui comunque continuerà a produrre alti livelli di combustibili fossili. Come? Compensando le sue emissioni legate ai combustibili fossili attraverso enormi progetti basati sulla natura (natural based solutions) che catturano e immagazzinano carbonio, come il ripristino delle foreste e degli oceani. Chiariamoci, male non fanno queste iniziative, però cosa succederebbe se altre compagnie petrolifere, tutte le industrie del trasporto aereo, del settore marittimo, o dell’acciaio, o i governi sovrani proponessero tutti una soluzione simile? Realisticamente non ci sono abbastanza terre o oceani disponibili per riequilibrare il sistema, senza passare per un cambio di paradigma del business as-usual.
L'ondata di impegni a zero emissioni nette ha fatto impennare la domanda di compensazioni ed i mercati volontari del carbonio sono sotto pressione per la loro rapida espansione. Una task force lanciata dalle Nazioni Unite per il Cambiamento Climatico (UNFCCC) ha presentato un prospetto a Davos 2021 che prevede che i mercati volontari del carbonio debbano crescere quindici volte nel prossimo decennio. Capiamo bene che, al di là della retorica, semplicemente non c'è abbastanza capacità ecologica per compensare le emissioni del mondo industrializzato. Prendiamo il caso delle foreste per esempio: ci sono circa 3 trilioni di alberi sulla Terra oggi, con spazio per circa 2,5 trilioni in più. Solo la Trillion Tree Campaign, il programma 1T, l’iniziativa Trillion Trees ed il CEO di Reddit, tra gli altri, mirano a piantare un trilione di alberi ciascuno. Siamo di fronte a un vicolo cieco. Ecco perché l’attenzione deve concentrarsi sulla riduzione piuttosto che sulla compensazione delle emissioni globali. I mercati volontari del carbonio svolgono un ruolo fondamentale nell’offrire soluzioni di compensazione creative e stanno mobilitando il settore privato ad agire. Ma devono essere circoscritti.
Il vero atto di pulizia del clima inizia con un calo netto di tutti i gas a effetto serra, una riduzione reale delle loro concentrazioni atmosferiche. Un approccio olistico che guarda indiscriminatamente, con uguale simpatia, al settore energetico, alle infrastrutture, alla gestione dei territori, alle tecnologie di cattura del carbonio, agli stili di vita, e così via.
Marco Grisenti

Laureato in Economia e Analisi Finanziaria, dal 2014 lavoro nel settore della finanza sostenibile con un occhio di riguardo per l'America Latina, che mi ha accolto per tanti anni. Ho collaborato con ONG attive nella microfinanza e nell’imprenditorialità sociale, ho spaziato in vari ruoli all'interno di società di consulenza e banche etiche, fino ad approdare a fondi d'investimento specializzati nell’impact investing. In una costante ricerca di risposte e soluzioni ai tanti problemi che affliggono il Sud del mondo, e non solo. Il viaggio - il partire senza sapere quando si torna, e verso quale nuova "casa" - è stato il fedele complice di anni tanto spensierati quanto impegnati, che mi hanno permesso di abbattere barriere fuori e dentro di me, assaporare panorami, odori e melodie di luoghi altrimenti ancora lontani, appagare una curiositá senza fine. Credo in un mondo più sano, equilibrato ed inclusivo, dove si possa valorizzare il diverso. Per Unimondo cerco di trasmettere, senza filtri, la veritá e la sensibilità che incontro e assimilo sul mio sentiero.