Produrre meno, riciclare di più. La sfida #diventaregreen del tessile

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Nell’ambito della nostra campagna #diventaregreen, abbiamo intervistato Andrea Dorigato, Professore Associato presso il Dipartimento di Ingegneria Industriale dell’Università di Trento. Dorigato è specializzato in Ingegneria dei Materiali e tiene, fra gli altri, un corso di Recycling and Sustainable Materials, nel quale insegna e applica il calcolo dell’impatto ambientale di materiali e processi industriali tramite l’Analisi del Ciclo di Vita (LCA). Basandosi sulle normative vigenti, questo calcolo oggettivo prende in considerazione l’impatto ambientale dei materiali partendo dall’estrazione delle risorse, fino al fine vita dei prodotti, includendo gli impatti legati al trasporto ed all’eventuale riciclo. Il professor Dorigato si è occupato anche di studiare nuovi tipi di fibre sostenibili, di origine bio-based e/o biodegradabili. Pertanto, abbiamo chiesto di un settore, quello del tessile, che potrebbe attraversare – com’è per altri settori – una svolta green.

Ma è davvero così? 

AD: Lo sviluppo sostenibile, portatore di un effettivo beneficio futuro, sarà prodotto solo da quelle azioni che coniugheranno tre fattori: ambiente, società, economia. Ad esempio, un tessuto sostenibile dal punto di vista ambientale potrà considerarsi portatore di sviluppo sostenibile solo se risponderà alle esigenze della società e avrà un prezzo accettabile. Se, invece, quel tessuto non sarà economicamente sostenibile, cioè la maggior parte delle persone non potrà permetterselo, allora non rappresenterà sviluppo sostenibile.

Vale per tutti i prodotti o solo per il tessile? 

AD: Questo è un discorso che vale in generale. Vengono chiamate articolazioni dello sviluppo sostenibile tutte quelle azioni che, combinando questi tre fattori – ambiente, società, economia –, possono ridurre l’impatto ambientale. 

Nello specifico del settore tessile, vediamo tutti questi prodotti con fibre biobased, che hanno dei prezzi molto più elevati dei tessuti presenti sul mercato. O si trova il modo per venderli ad un prezzo competitivo, o rimarranno solo una nicchia di mercato. 

I tessuti a base poliestere e poliammide hanno soppiantato anche quasi tutti i tessuti tradizionali di lana, cotone, lino, etc. La domanda di queste ultime fibre è diminuita drasticamente e ci sono sempre meno produttori industriali. Trattandosi di lavorazioni di tipo per lo più artigianale o comunque con volumi di produzione ridotti, il prezzo dei prodotti con questi tessuti è aumentato. 

Quindi, direi che oggigiorno dobbiamo preoccuparci di produrre fibre in poliestere e poliammide riciclate: se facciamo questo, faremo già molto bene all’ambiente. 

Si deve tenere conto che non stiamo parlando del settore dell’alta moda, ma del settore abbigliamento di largo consumo. È un settore che occupa una fetta enorme dell’economia mondiale, dove c’è una sovraproduzione incredibile, in cui una parte considerevole dei capi di abbigliamento prodotti viene buttata, con uno spreco enorme di risorse. Mediamente nel mondo, ogni persona compra 20 capi d’abbigliamento all’anno. Se pensiamo che vi sono miliardi di persone che praticamente non comprano vestiti, significa che nei paesi cosiddetti ricchi si comprano anche 80 capi all’anno. Questo trend è insostenibile sul medio e lungo termine.  

Quindi, ora come ora, la scelta più green sarebbe quella di comprare meno vestiti? 

AD: Sì, la scelta più sostenibile dal punto di vista ambientale – e sottolineo ambientale – è sicuramente quella di ridurre i consumi in questo settore. D’altra parte, poiché lo sviluppo sostenibile si ha solo quando anche il lato economico e sociale sono soddisfatti, ridurre la produzione può essere pericoloso. Considerando il numero di addetti impiegati nel settore, infatti, va da sé che ridurre la produzione significherebbe ridurre i posti di lavoro, ed impattare sulle scelte e le abitudini di spesa dei consumatori. 

Si può raggiungere una mediazione fra questi due aspetti? 

AD: Parlando di settore tessile, credo che, in futuro, sarà necessario optare per una riduzione della produzione “inutile”. D’altra parte, si dovranno introdurre sul mercato sempre più fibre tessili riciclate, o recuperare e rivalorizzare fibre tessili naturali. Aumentando la produzione con queste fibre, si spera che il loro prezzo al dettaglio diventi più accessibile, vicino a quello delle fibre sintetiche tradizionali. Allora sì che queste azioni porteranno ad una situazione più equilibrata e, quindi, anche ad un beneficio ambientale. 

A che punto è la ricerca per materiali riciclati? 

AD: Si stanno facendo grandi sforzi in questo senso. Credo che, tecnicamente, siamo a buon punto. Riciclare fibre sintetiche a base poliestere e a base poliammide (le più diffuse, perché coprono il 70/80% della produzione tessile industriale mondiale) è assolutamente fattibile. Dal punto di vista tecnico non è un problema produrre queste fibre. Ovviamente la ricerca tenta di aumentare progressivamente il contenuto di riciclato nelle fibre tessili, ma non siamo lontani da una realtà consolidata. Possiamo dire che, fra non molto, il mercato del riciclato diventerà uno standard di mercato, una tecnologia matura.  

Una volta che la plastica è stata trasformata in capo d’abbigliamento, questo che fine potrà fare? 

AD: Si tratta di una plastica come tutte le altre. Purtroppo, il tasso di riciclo delle materie plastiche nel mondo è più basso di quello degli altri materiali. Ricicliamo il 70/80% dell’alluminio, dell’acciaio, del vetro e il 60/70% della carta. Invece, la plastica, a livello mondiale, ha un tasso di riciclo molto basso, e in Europa si attesta attorno al 25%. Dovremmo arrivare ad un tasso almeno simile a quello degli altri materiali. E lo si può fare. 

C’è un doppio problema che riguarda il riciclo delle plastiche. In primo luogo, le plastiche devono essere separate fra loro. Esistono 70000 tipi di plastica conosciuti nella letteratura scientifica, ma industrialmente se ne utilizzano, su larga scala, 20/30 tipi. Poi ce ne sono circa 5 tipi che coprono l’80%/85% della produzione mondiale. Noi dobbiamo preoccuparci di questi. Dobbiamo essere in grado di separarli e trattarli separatamente perché sono incompatibili fra loro, altrimenti ne risulterebbero materiali riciclati dalle proprietà pessime. 

In secondo luogo, la plastica riciclata perde proprietà fisiche: una fibra ad alto contenuto di riciclato tende ad avere proprietà inferiori rispetto a quella vergine. Non possiamo pensare di riciclare un prodotto all’infinito, a meno che non si vogliano aggiungere additivi chimici costosi in fase di reprocessing. Quindi, si dovrebbe cercare di riciclare il maggior numero di volte possibile e tutto ciò che non può essere riciclato deve essere termovalorizzato. Così da recuperare, almeno, energia. 

Ciò che deve essere evitato a tutti i costi è il conferimento in discarica. La discarica è l’opzione peggiore dal punto di vista ambientale. Gli spazi per le discariche non sono infiniti, non sappiamo cosa possa succedere ai rifiuti quando permangono in discarica e, inoltre, con questo sistema di smaltimento non si recupera né materia, né energia. Ci sono Paesi, come la Svizzera, dove l’interramento è bandito dal 1999. Nei Paesi del nord Europa il tasso di rifiuto interrato è praticamente nullo, si aggira sul 5%. Invece, ci sono Paesi, come l’Italia, dove l’interramento rappresenta ancora un terzo circa della gestione totale dei rifiuti

È possibile un futuro plastic free?

AD: Non dobbiamo liberarci della plastica. La plastica ora viene deprecata, ma è un materiale che, negli ultimi 150 anni, ha permesso un progresso economico e tecnologico enorme. Gli aerei oggi non volerebbero consumando lo stesso carburante se non ci fosse la plastica. Le pale eoliche sono realizzate con materiali compositi polimerici. Non potremmo convogliare liquidi e gas con tanta facilità se non ci fosse la plastica. Non parliamo, poi, dei dispositivi medici, visto che la plastica è un materiale fondamentale nel settore biomedico. Si dovrebbe smettere di pensare e parlare a vanvera del “plastic free” e iniziare invece a pensare in maniera più oggettiva e responsabile al “plastic waste free”. La plastica, come tutti gli altri materiali, ha un impatto ambientale ed un fine vita: si deve imparare ad utilizzarla e gestire il fine vita in maniera corretta, quindi riciclarla il più possibile. Purtroppo, finora non è stato fatto perché produrla ha un costo relativamente basso e sembrava che recuperarla, separarla e riciclarla non fosse conveniente da un punto di vista economico. Oggi sappiamo che non è più così. 

Maddalena D'Aquilio

Laureata in filosofia all'Università di Trento, sono un'avida lettrice e una ricercatrice di storie da ascoltare e da raccontare. Viaggiatrice indomita, sono sempre "sospesa fra voglie alternate di andare e restare" (come cantava Guccini), così appena posso metto insieme la mia piccola valigia e parto… finora ho viaggiato in Europa e in America Latina e ho vissuto a Malta, Albania e Australia, ma non vedo l'ora di scoprire nuove terre e nuove culture. Amo la diversità in tutte le sue forme. Scrivere è la mia passione e quando lo faccio vado a dormire soddisfatta. Così scrivo sempre e a proposito di tutto. Nel resto del tempo faccio workout e cerco di stare nella natura il più possibile. Odio le ingiustizie e sogno un futuro green.

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