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Led, smartphone e verdura. Il futuro che (non) ci aspetta
Bioagricoltura
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Non so se avete presente quello sketch di Natalino Balasso al ristorante, quello dove il cliente chiede di ordinare “qualcosa di sano” e il ristoratore, con un realismo che fa rima con cinismo, finisce per non servirgli nulla, perché all’avventore è passata la fame dopo aver ascoltato le riflessioni di Balasso sull’impossibilità di acquistare, cucinare e mangiare alimenti di qualità. Leggendo qualche tempo fa un articolo apparso su Repubblica.it ho pensato proprio a quel teatrino alla Trattoria dell’Intossicazione che, se da un lato suscita più di un sorriso (amaro), dall’altro disarma con la sua icastica sincerità: “Le verdure a km 0 vanno bene se a km 1 non c’è una discarica tossica, se qualcuno non ha nascosto la polvere sotto il tappeto”. Ci ho pensato perché l’articolo che mi aveva incuriosita parlava di verdure a “cm 0”. Eh sì, sta diventando una moda strutturare orti sul balcone, giardini in casa e coltivazioni sui tetti dei palazzi. E non lo dico affatto con l’intenzione di criticare questa tendenza, di cui spesso parliamo anche noi di Unimondo e che si rivela un’interessante attività per alleggerire come si può le conseguenze di un inquinamento che pare sempre meno arginabile.
Quello che mi ha fatto ripensare alle parole di Balasso “Non c’è niente di sano in un ristorante… e neanche a casa sua se è per questo!” è stata la notizia della creazione di una startup dal nome pluralmente evocativo: Bulbo. L’idea nasce da quattro giovani precari che, grazie a risultati incoraggianti ottenuti dalla collaborazione con la Facoltà di Agraria dell’Università di Bologna, decidono di applicare in ambito domestico la tecnologia utilizzata nelle serre per incrementare le ore di illuminazione. Dai bulbi vegetali a quelli delle lampadine insomma. Più d’uno i motivi che hanno spinto i quattro neolaureati a imboccare questa strada: prima di tutto la voglia di non mollare, di non diventare come “chi dice all'estero è tutto meglio e lo trovi sempre qui a lamentarsi”, ma anche la voglia di valorizzare talenti e idee italiani e riscoprire il valore di prodotti made in Italy come la ceramica faentina o l’elettronica emiliana. Risultato: la messa a punto di lampade a led che sfruttano luce bianca e frequenze rosse e blu, assorbite dalle piante durante la fotosintesi rispettivamente per la fase vegetativa e per quella produttiva. Un’idea che permette, senza inquinamento luminoso, di coltivare ortaggi nello spazio (chiuso) di 50 cm, sufficiente per spinaci, peperoni, fragole, aromatiche e altre piante. E che costa relativamente poco, sia per l’acquisto delle lampade sia per il consumo energetico (la lampada più piccola consuma tanto quanto un router wi-fi). Tempo un mese e il basilico per il pesto è pronto.
Un’idea che, a detta dei promotori, non punta all’autosufficienza, ma si propone un intento anche educativo, per dare la possibilità ai cittadini di vivere in maniera diretta la crescita di una pianta, dedicandovisi e prendendosene cura (quasi fosse un tamagotchi) e magari talvolta scoprendo, per chi ha sempre abitato in città, i ritmi naturali della vita vegetale.
Nessun sogno di autarchia che si realizza dunque? Per i ragazzi di Bulbo non è certamente questo lo scopo dell’iniziativa, ma altre sono le esperienze che nel mondo vanno in questa direzione: e a quanto pare a ragione, dato che le Nazioni Unite stimano che più della metà della popolazione mondiale (e il trend è in crescita) vive oggi in città.
Ecco allora che, ancora una volta, il MIT di Boston (Massachusetts Institute of Technology) raccoglie le avanguardie tra le soluzioni possibili: da un lato la City Farm, dall’altro la Grove Labs. Il primo è un progetto di fattoria verticale in centro città, che prevede l’utilizzo di lampade led e coltivazioni idroponiche e aeroponiche, il tutto all’insegna di grande produttività, bassa manutenzione e risparmio energetico. Il secondo invece è un laboratorio pensato per decentralizzare in maniera totale la produzione di cibo, attraverso un’apparecchiatura capace di allevare pesci e coltivare orti anche nelle stanze più buie delle nostre abitazioni, attraverso un complesso sistema che riproduce il ciclo naturale della vita… in questo caso controllabile anche a distanza tramite una app per smartphone. Fantascienza? Mah, non proprio, se date un’occhiata al loro sito vi accorgerete che l’idea è una via di mezzo tra una splendida trovata di design da cucina e un progetto psico-scientifico per rendere le persone più felici senza far loro mancare una cosa fondamentale come il cibo fresco e bio. Il tutto, intendiamoci, senza voler sostituire le fattorie tradizionali o le coltivazioni open air là dove sono realizzabili.
Forse può sembrare allora inopportuno sollevare qualche perplessità su iniziative di questo genere, che indubbiamente si prodigano su vari fronti, dall’occupazione giovanile, al risparmio energetico e alla riduzione dell’inquinamento dovuto ai trasporti di beni alimentari, dall’investimento sulla creatività, al recupero di attività legate ai prodotti della terra, al tentativo di rendere il cibo accessibile a tutti. Ma forse è anche proprio questo il punto: prodotti della terra cresciuti sotto la luce artificiale di stanze chiuse dentro i palazzi delle città; cibo apparentemente “per tutti” ma contemporaneamente consumato male e distribuito in maniera sproporzionata; perdita, a favore di una coltivazione interna, di quei legami sociali che spingono le persone ad uscire di casa e condividere spazi di comunità, siano essi orti co-gestiti o mercati di frutta e verdura… Effettivamente in tutto questo c’è qualcosa che nonostante tutto mi rimane, ancora e forse purtroppo, innaturale.