Prospettive al tempo del sisma

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Foto: M. Canapini ®

Valle di Kathmandu. Il paesaggio sembra lo stesso assaporato in Birmania, lungo la strada per Kalaw: luce gialla, montagne solenni, vecchiette cariche di arbusti secchi. Un rinoceronte tarchiato spunta tra i cespugli rigogliosi minacciando il furgoncino. Tempi bui per il Nepal. Esattamente cinque mesi fa la nazione è stata colpito da un violento terremoto di magnitudo 7.8 (con epicentro a circa 34 km a sud-est di Lamjung) che ha causato più di 8.000 morti, oltre a danni minori nelle zone himalayane di India, Cina, Pakistan e Bangladesh: ecatombe. Si tratta dell'evento sismico più violento dal 1934, anno in cui una micidiale scossa di magnitudo 8.0 provocò altresì la morte di circa 10.600 persone. Come se ciò non bastasse, il popolo nepalese è soggetto ad un embargo non dichiarato: l’India, arrestando l’invio di gas e benzina, schiaccia il paese degli Dei sull’orlo della bancarotta. Attualmente le industrie e le attività commerciali sono chiuse, il cibo scarseggia, la crescita economica rischia di fermarsi al di sotto della soglia di sussistenza, mentre le proteste popolari divampano sul confine, a due passi da BagahaAdottato poco dopo l’approvazione della nuova Costituzione (laica e democratica), il blocco indiano delle merci appare un’evidente ritorsione verso un nuovo assetto statale che svincola totalmente il Nepal dal potere monarchico indù di Delhi.

Ai margini del tradizionale borgo di Patan ci accolgono file infinite di vetture, in attesa di preziosi litri di benzina spediti illegalmente dalla Cina. “Un litro è arrivato a costare ben sei dollari e una volta concluso il commercio clandestino si andrà per forza a frasche per scaldarsi” racconta in maniera spiccia un uomo incolonnato. Le corriere di linea, poche e intasate, sono prese d’assalto da masse spropositate di genti: operai, studenti, casalinghe. Attorno, robuste impalcature e infissi in legno sorreggono alcune case danneggiate dalle scosse. Il sisma sembra essere passato pochi giorni fa, sebbene l’impatto sia avvenuto ben cinque mesi orsono. Nelle botteghe raccontano le vicende di migliaia di persone sfollate in campi d’accoglienza o in rifugi temporanei costruiti con fango secco e argilla. Nei templi dedicati a Ganesh, decine di anziane, ogni mattina, camminano tra santuari e statuette, spingendo le ruote Chokhor. Quando il tubolare gira, la preghiera insita in essa si staglia nell’aria ed il vento la trasporta in tutto il mondo. Ogni rotazione corrisponde a una recitazione del mantra, permette di accumulare meriti e sostituire la negatività generando un buon karma. Molte fedeli hanno fiori e petali incastrati nei capelli grigiastri. È la Puja, la preghiera del risveglio. La terra trema, loro fanno tribù, zolla di terra, fuoco acceso. 

Thecho. Alcuni negozietti sono freddi e bui, sbarrati al pubblico. Altre locali restano a galla farcendo scialbi panini riscaldati col microonde. “Si può mangiare qualcosa”? Chiedo bighellonando in giro. “No gas”. È solitamente la lapidaria risposta. “E cosa mangiate senza gas?” “Zuppe”. Chet, un muratore originario di Lhasa, mi accompagna nella lenta passeggiata: “Dopo il terremoto sono nate decine di associazioni solidali, le più quotate sono quelle inerenti all’infanzia, un settore redditizio sempre in voga - scherza disgustato il trentenne - oltre al profitto indiscusso celato dietro le cosiddette emergenze, mi chiedo una cosa: se sei povero, in Nepal (o nel mio Tibet) non c’è lavoro, la terra non rende, la scuola più vicina dista 100 km e non sai che futuro offrire a tuo figlio, cos’altro ti rimane da fare? Alcuni genitori permettono ai figli, seppur piccoli, di emigrare in cerca di cibo e mestiere. A questo punto però spuntano le associazioni umanitarie le quali giudicano i famigliari come persone irresponsabili, chiedendo maggior diritti per l’infanzia, promuovendo iniziative pedagogiche per i più svantaggiati, ma non sanno cosa significa avere fame né venir colpiti duramente da madre natura o dall’indifferenza degli uomini. Forse sarebbe andata peggio se quei bambini fossero restati a casa loro?”.

Ringalluzzito da una birra doppio malto, Chet ondeggia tra un discorso e l’altro, come ondeggia quel scimmione sui pali dell’alta corrente. Alcune donne, nude dalla cintola in su, lavano piedi e ginocchia ad una fontana pubblica. “Shiva e Parvati ebbero un figlio. Un giorno Shiva tornò dalla guerra e vide la moglie assieme ad un bel giovane. Pensando fosse l’amante diede una sberla fortissima al fanciullo, staccandogli la testa. Il primo capo che Shiva trovò fu quello di un elefante, rianimò il corpo del figlio e tutti vissero felici e contenti. Ancora oggi Ganesh viene raffigurato con fattezze elefantesche, oltre a quattro braccia, una zanna spezzata e tante altre simbologie” prosegue Chet indicandomi una taverna tipicamente Newari dietro l’angolo. Gelidi raggi solari sciolgono i fianchi delle montagne protettrici, crepate in più punti. Cadono le prime foglie secche della stagione, le case spurgano fumo bianco, di legno giovane. Un liquore scuro, simile a grappa friulana, viene versato dentro un orcio in pietra, centrando con assoluta precisione il bicchierino, come il rito casalingo del the verde in Tunisia. Gli effetti saranno simili a quelli provati nella valle del Vajont, scassata decenni orsono da vento, ettolitri d’acqua e incuria umana. 

Matthias Canapini

Matthias Canapini è nato nel 1992 a Fano. Viaggia a passo lento per raccontare storie con taccuino e macchina fotografica. Dal 2015 ha pubblicato "Verso Est", "Eurasia Express", "Il volto dell'altro", "Terra e dissenso" (Prospero Editore) e "Il passo dell'acero rosso" (Aras Edizioni).

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