Birmania: la realtà è altrove

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Foto: M. Canapini ®

L’ufficio dove siedono due scontrosi doganieri è ricoperto di ragnatele e muffa. Un ritratto di Aung San Suu Kyi troneggia sulla parete, affiancato da un annuncio pubblicitario recante le coordinate per incontrare le mitiche donne giraffa di etnia PadaungLe strade sono intasate di giovani bonzi e uomini vestiti di Longy. Compro all’ultimo secondo un biglietto per Kyain Tong, prendendo faticosamente spazio a bordo di una corriera stracolma di pacchi e tricicli, adagiandomi sopra un saccone enorme di patate; a fianco un monaco sui trent’anni smarrisce lo sguardo nella scaletta femminile suggerita da TinderMezza corriera si sporge verso gli ultimi sedili, allungando il collo per sbirciare i movimenti dello straniero. Mormorano parole, capto solo il termine Farang, un additivo che si attacca addosso senza tregua alcuna. Informano a gesti che il cammino per Taunggyi è bloccato: varie fazioni militari non riconosciute si fronteggiano tra loro. Una storia comune, dicono i passeggeri, nulla di cui preoccuparsi. In fondo al dirupo prendono vita campi verdissimi illuminati da un sole squallido. La Birmania ha un profumo tutto suo: uno spartiacque di sapori, una cisterna traboccante di profonda vita. Nell’est, un paesino di poche case, all'improvviso è rimasto senza elettricità, facendo piombare nel buio fattorie e casolari. Alcuni militari armati dall'aria stanca pattugliano le viuzze di questi luoghi senza nome, mentre il volto dell'eroina popolare, candidata come nuovo capo di stato, spunta ovunque, senza logica. Dipinto su bandiere rattoppate, appeso nei cruscotti delle macchine, sui fanali malandati delle biciclette o appiccicato sulla fronte dei locali. Manca meno di un mese alle prime elezioni libere del paese dal 1990, quando i seggi furono annullati con rabbia dalla giunta militare. La tensione ti taglia a fette e contrasta incredibilmente con la spiritualità intensa del cosmo. Ah Beay, 23 anni, racconta sottovoce: "Vedi le condizioni del nostro paese? Qualità bassa, non c'è corrente elettrica né connessioni. Le piogge distruggono ogni anno gran parte delle vie di comunicazione, senza parlare delle guerriglie tra le varie etnie Karen, Shan, Wa … i sequestri lungo i confini indiani e bangladesi sono frequenti". Ah Beay non si sbilancia. Superiamo un comizio elettorale improvvisato tra le radici di un enorme albero, al lume di una lampada a petrolio. Ancora soldati. L'altoparlante sbraita parole e voti. Il politico di turno mi infila nelle tasche, annuendo, una decina di adesivi recanti la scritta “Lega nazionale per la Democrazia”. I caratteri alfabetici dell’abicì birmano assomigliano a lombrichi di varie lunghezze attorcigliati tra loro. Incuriosito azzardo una domanda delicata, chiedendo ad Ah Bey un parere personale su Aung San Suu Kyi, la famosa Orchidea d’Acciaio: “Suo padre era nostro padre. Nessun ne ha mai parlato in passato, ma lei ha sempre continuato a combattere per la democrazia. Siamo sicuri che può vincere col sostegno di tutti noi, la storia si deciderà il mese prossimo con le elezioni… le cose miglioreranno”. L’eterno dilemma. Globalizzazione in cambio di benessere. Bruciare le armi per aprir le porte al capitalismo sfrenato? In giro conto decine di facce disperate. Ragazze di trent’anni già vecchie. “Meglio essere tutti uguali nel consumo e nel pensiero, piuttosto che patire la fame, credimi” sbiascica il giovane Ah Bey, rasentando un totem animista situato lungo le rive di un fiume sconosciute che canta dinnanzi a noi. Alle 12.00 precise è morto un giovane bonzo. Il corteo in suo onore parte da un tempio raffinato; i presenti lanciano riso e petali in memoria del piccolo aspirante monaco. Veniamo inghiottiti dal flusso di energia. Un uomo si avvicina, autenticamente chiede: “Da dove vieni? Sei felice?”. Ancora cerco risposte. 

Le strade di Mandalay sono allagate. La città è sommersa d’acqua, che spurga dai tombini con impeto. La osservo annaspare dalla vettura di U-Chit, smilzo tassista mangiatore inferocito di Kunya, preparato tradizionale di noci di betel, tabacco, calce e spezie. Mescolate insieme e avvolte in spesse foglie verdi, queste sostanze vengono masticate per molte ore favorendo la digestione e profumando l’alito, ma anche per, in alcune circostanze, diminuire i morsi della fame. U-Chit coi suoi occhi acquosi giura di mangiarne venti pacchetti al giorno. Ogni volta che sputa a terra il succo segna l’asfalto di macchie rosse, come fossero sbocchi di sangue. Sapresti ritrovarlo ovunque, seguendo le tracce come Pollicino. Nei pressi del ponte di U-Bein, il più lungo al mondo, sulle acque del lago Taungthaman, nelle vicinanze dell’antica capitale birmana di Amarapura, il mezzo emana pericolose fiammate. Ogni perdita è un’opportunità. Raggiungo la mitica piana di Bagan pestando sui pedali di una vecchia Graziella. Aratri in legno, piste sabbiose, enormi Buddha in pietra. Un paio di contadine con le guance secche, pascolano quattro caprette canticchiando come vecchie Mondine del Vercellese. 

La stazione di Shwe Nyaung è un casermone bianco avvolto dalla polvere. Compro un biglietto per Thazi, località ignota lungo la ferrovia diretta a Yangon. Sedici ore di viaggio per un euro di spesa. Il trabiccolo nasconde un’insidia: procede a passo d’uomo, superando ponti instabili a strapiombo su vallate riecheggianti i canti d’amore degli uccelli tropicali. Le panche sono di legno duro, cavilloso ed ogni carrozza è pattugliata da tre poliziotti armati, concentrati nel fumare sigari Cheroot. Le guardie, ritmicamente, mi tempestano di domande. Dove vai? Sei solo? Da Thazi prendi un Express per Yangon d’accordo? Ad ogni fermata vivaci venditrici intrallazzano commerci volanti: mazzi di fiori, limoni, zucche, bambini urlanti, cappelli rotti. Il treno continua a salire, 3.000 metri sul livello del mare e ancora più su. Il cielo è bianco come panna, perforiamo muri di nebbia coprendoci il naso con sciarpe sporche di fango. In picchiata i freni stridono, la foschia si dirada e scopro con stupore che non era bruma bensì nuvole, bianche nuvole. La visione dell’alba uniforme ripaga il collo indolenzito, gli occhi gonfi, la lingua impastata da due sorsi di whisky mal calibrate. Le capanne di bambù scompaiono repentinamente, lasciando spazio a basse abitazioni occidentali ancora agli esordi. Le ragazze non indossano più gonne colorate e ben poche tinteggiano le guance con spruzzi di ThanakaManca la bellezza semplice delle indigene. L’ansia generale delle elezioni, a Yangon, si avverte con minor pressione sebbene il popolo legga assiduamente il giornale, alcune ville parlamentari siano blindate da filo spinato e piccoli cortei a favore della Democrazia marciano nelle viuzze della città. Piove tantissimo e la stagione dei monsoni è martellante, continua, un odore d’India, d’oltreconfine solletica le narici. Compro delle cipolle fritte da un uomo Rohingya* sconsolato, seduto a terra. “Li riconosci dalla pelle e dagli occhi scavati” sussurra Sergio, un diplomatico italiano residente in città. Una prostituta passeggia sotto un lampione, in una via secondaria della capitale. “Ecco l’occidentalizzazione” prosegue Sergio. “La prima squillo che vedo in città. Mi chiedi come sarà la Birmania dopo le elezioni? Trasformata, sicuramente. Povertà e ricchezza si guardano da lontano, consci della loro condizione, camminano parallelamente, senza mai incontrarsi”. Pagine sgualcite del Myanmar Times prendono il largo, trasportate dal ciclone incombente. Di fronte la pagoda "Maha Wizara", padre e figlio giocano sotto la pioggia fitta. È bello abitare il mondo con il cielo lontano da casa.

*Il popolo Rohingya, gruppo etnico di fede musulmana non riconosciuto come minoranza dal governo birmano, sistematicamente discriminato e perseguito per motivi religiosi, vive schiacciato tra il golfo del Bengala e un pezzettino di Bangladesh, nello stato del Rakhine. Tanti prendono la via del mare, rimanendo alla deriva per settimane nel Mar di Andamane. I più fortunati, a intermittenza, raggiungono le coste della Thailandia, Malesia o Indonesia. 

Matthias Canapini

Matthias Canapini è nato nel 1992 a Fano. Viaggia a passo lento per raccontare storie con taccuino e macchina fotografica. Dal 2015 ha pubblicato "Verso Est", "Eurasia Express", "Il volto dell'altro", "Terra e dissenso" (Prospero Editore) e "Il passo dell'acero rosso" (Aras Edizioni).

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