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Corea del nord: “l’allargamento” della repressione
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La morte del leader nord-coreano Kim Jong-il il 17 dicembre 2012 e l’assunzione del potere da parte del figlio Kim Jong-un a molti era sembrata l’occasione per guardare avanti e migliorare il catastrofico primato della Repubblica popolare democratica di Corea in tema di diritti umani. In realtà chi sperava che il giovane leader supremo mettesse fine all’apparato repressivo messo in piedi da suo padre e da suo nonno si sbagliava di grosso. Dopo 12 mesi di governo Kim Jong-un ci si rende conto che poco è cambiato. In un documento reso pubblico la scorsa settimana intitolato “Corea del Nord: il continuo investimento nell'infrastruttura della repressione” (.pdf), Amnesty International ha diffuso testimonianze inedite e nuove immagini satellitari che rivelano l’ulteriore allargamento di due dei più grandi campi di prigionia coreani, il 15 e il 16 con la costruzione di nuovi blocchi per i prigionieri, l’espansione delle fabbriche e il rafforzamento delle misure di sicurezza.
Il kwanliso 16, nei pressi di Hwaesong, nella provincia di Hamgyong, si estende per circa 560 chilometri quadrati, tre volte Washington. È sicuramente il più grande centro di detenzione politica della Corea del Nord e uno dei siti meno indagati nel vasto sistema dei campi di prigionia politica. “Nel 2011, si riteneva vi fossero detenute 20.000 persone” ha spiegato Amnesty. “ Le immagini del maggio 2013 mostrano nuovi blocchi per i detenuti già terminati o in costruzione, segnale di un lieve incremento della popolazione del campo. Le immagini evidenziano anche l’espansione di un’area industriale all’interno del campo, così come attività economiche agricole, minerarie e boschive in corso”.
Il duro lavoro forzato è una prassi comune nei campi di prigionia politica della Corea del Nord e secondo le testimonianze di ex detenuti e funzionari dei campi raccolti nel documento della ong “i prigionieri passano la maggior parte del tempo a lavorare in condizioni pericolose, con poco tempo a disposizione per riposare. Le misure di sicurezza rimangono rigide”. Le immagini satellitari mostrano posti di controllo e filo spinato intorno al perimetro del campo. I movimenti paiono limitati e controllati attraverso ingressi sorvegliati, torri di guardia e posti di blocco interni al campo. “L’orrenda realtà del continuo investimento della Corea del Nord in questo vasto reticolo di repressione ora è chiara. Chiediamo alle autorità di rilasciare subito e senza alcuna condizione tutti i prigionieri di coscienza detenuti nei campi di prigionia politica e di chiudere questi ultimi immediatamente” - ha dichiarato Rajiv Narayan, ricercatore di Amnesty International sull’Asia Orientale.
Ma l’allargamento delle strutture repressive non è l’unica “sorpresa” del 2013. Amnesty ha condiviso in questo nuovo documento le prove raccolte negli scorsi mesi con la Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite che sta indagando sulle violazioni dei diritti umani nella Corea del Nord e secondo la quale “centinaia di migliaia di persone, donne e bambini compresi, sono attualmente ancora detenute nei campi di prigionia politica e in altre strutture detentive del Paese. Molte di esse non hanno commesso alcun reato e sono unicamente familiari di presunti responsabili di gravi reati politici”. La loro detenzione, basata sulla “colpevolezza per associazione”, rappresenta una forma di punizione collettiva ancora ammessa da Kim Jong-un. È lo stesso folle concetto che ha portato recentemente a giustiziare il gruppo di cantanti e attori che lavoravano con l’ex fidanzata di Kim Jong-un e tutto lo staff dello zio del leader supremo dichiarato un traditore.
Ma non è tutto. Nel novembre 2013 il signor Lee, addetto alla sicurezza del kwanliso 16 dagli anni ’80 fino alla metà degli anni ’90, per la prima volta ha rilasciato un’intervista ad Amnesty International circa i metodi usati per mettere a morte i prigionieri che vengono costretti a scavarsi la fossa e poi uccisi con un colpo di martello al collo. Il signor Lee ha dichiarato di aver visto funzionari del campo strangolare detenuti o picchiarli a morte con bastoni di legno e ha anche parlato delle molte donne scomparse dopo essere state stuprate: “Dopo una notte al servizio dei funzionari, le donne dovevano morire affinché il segreto non trapelasse. Questo accade ancora nella maggior parte dei campi di prigionia politica”.
Analogamente Kim Young-soon, ex detenuta del kwanliso 15 tra il 1980 e il 1989, ha descritto l’esecuzione pubblica di due prigionieri che avevano tentato di evadere: “Li portarono sul posto dopo averli malmenati. Li legarono a dei pali di legno e gli spararono tre volte, alla testa, al petto e ai piedi”. Le immagini satellitari del kwanliso 15, noto anche come Yodok, che si estende su un’area di 370 chilometri quadrati e si trova al centro del Paese, a 120 chilometri dalla capitale Pyongyang, mostrano, rispetto a quelle del 2011, che sono stati demoliti 39 blocchi e ne sono stati costruiti sei nuovi. La diminuzione dei blocchi lascia supporre che la popolazione del campo sia diminuita, ma Amnesty International non è in grado di verificare quanti siano i detenuti o quale sia stata la loro sorte. Nel 2011, si ritiene vi si trovassero 50.000 prigionieri e anche a Yodok, come nel kwanliso 16, le immagini satellitari mostrano un aumento delle attività economiche in corso, tra cui il taglio del legname e la produzione di mobili, entrambe organizzate grazie a misure di sicurezza estremamente rigorose.
Da uno di questi campi di concentramento è riuscito a fuggire alcuni anni fa Shin Dong Hyuk, nato, cresciuto ed evaso da un kwanliso. Uno dei pochi che è riuscito a farcela e a raccontare la sua storia perché, come si può ben immaginare, la fuga da queste strutture è punita con la morte sul posto, e senza alcun processo, nemmeno formale. Eppure ancora oggi nessuna risoluzione delle Nazioni Unite è riuscita a porre un freno a questa lunga deriva autoritaria e sembra sempre più difficile imporre sanzioni monetarie ad un Paese che, con il sostegno della Cina, usa regolarmente la reale o immaginaria minaccia atomica e nega l’esistenza dei campi di prigionia politica.
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