Lotta all’usura: “un cambio di rotta” per non abbandonare chi denuncia

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“Eroi per il tribunale penale, colpevoli per quello civile”: è la situazione paradossale che si trovano a vivere molti degli imprenditori che, strozzati da racket e usura, decidono alla fine di denunciare i propri aguzzini. Il grido d’allarme arriva dalle associazioni no profit Sos Impresa e Rete della Legalità, che a fine febbraio si sono date appuntamento nella sede di Confesercenti a Roma per la firma della Convenzione presentata a governo e parlamento, intitolata proprio “Per non fallire di Mafia“. “Le misure normative vigenti non riescono a tutelare in pieno la vittima che denuncia – spiega il presidente di SOS Impresa Lino Busà – manca cioè quella convenienza nel denunciare tante volte sbandierata, ma mai attuata integralmente”.

Cosa significa? “Significa che esiste una sorta di intimidazione ambientale dopo la denuncia che rende drammatica la vita di queste persone: innanzitutto portare avanti le istanze di risarcimento è difficile e richiede tempi lunghissimi. E anche quando vanno a buon fine, spesso gli imprenditori per ragioni di sicurezza sono costretti a trasferirsi, e la maggior parte di loro non può riprendere la propria attività economica. Per le banche diventano soggetti a rischio e non hanno più l’accesso al credito, con tutto ciò che ne consegue. In pratica, vengono abbandonati dallo Stato e fatti fallire”.

Le proposte stilate nella Convenzione vengono proprio dalle esperienze di chi questi drammi li ha vissuti sulla propria pelle: come quella dell’imprenditore calabrese Antonio Mario Anile che, a seguito della sua denuncia contro la ‘Ndrangheta, per anni ha vissuto sotto scorta, è andato via dalla sua terra, e una volta è stato perfino sequestrato. I suoi usurai sono stati condannati ma, ironia della sorte, in prescrizione. “Ho trovato una valvola di sfogo nel volontariato con Sos Impresa – commenta – ma queste leggi antimafia e antiracket non sono più commisurate ai tempi”. L’esperienza di Vito, imprenditore siciliano, è ancora più emblematica: dopo la sua ribellione al sistema criminale del potere mafioso, si è visto revocare i finanziamenti bancari e rinviare a giudizio a sua volta come amministratore di una delle sue società per Iva non versata. “Ecco la doppia faccia della giustizia” commenta. E intanto, il conto lo paga anche lo Stato.

L’usura è infatti una piaga che, oltre ad essere odiosa, violenta e drammatica per chi la subisce, al settore delle imprese costa 100 miliardi di euro l’anno: in pratica, il 7 per cento del Pil. Secondo i dati di SOS Impresa, il numero dei commercianti coinvolti non sarebbe inferiore alle 200 mila unità, per un giro d’affari di circa 20 miliardi, destinato a crescere ulteriormente in periodi di crisi economica come questo. In cima alla classifica delle regioni più colpite c’è il Lazio, con con 28mila commercianti coinvolti (il 34,80 per cento sul totale degli attivi). Seguono Calabria (34 per cento), Campania (32 per cento), e Sicilia (29,90 per cento). Il fenomeno ormai non risparmia più neanche le regioni del Nord (preferite per le operazioni di “ripulitura” dei soldi illeciti): in Lombardia, ad esempio, si stima un coinvolgimento di oltre 16mila commercianti (il 19,2 per cento del totale), per un giro di affari di un miliardo e mezzo. L’unico dato positivo arriva dal numero delle denunce che, rispetto agli anni scorsi, risultano aumentate del 15 per cento. “Purtroppo, però, la denuncia come valore etico e sociale ha poca utilità senza le altre azioni per tutelare chi compie quest’atto di coraggio” spiega ancora Busà.

Ecco perché la Convenzione fa delle richieste ben precise, affinché lo Stato dia a queste persone degli strumenti concreti per rimettersi in piedi: come l’istituzione, per coloro che denunciano, di corsie preferenziali al sistema di appalti pubblici e forniture; l’assegnazione dei beni sequestrati e confiscati a un Consorzio nazionale di imprenditori che hanno denunciato e che dimostrano la capacità e la cultura nella gestione di un’impresa libera dai condizionamenti mafiosi; la creazione di un ombrello produttivo, con il blocco di tutte le esecuzioni e la sospensione dei debiti; la creazione del tutor antiracket, che possa seguire la vittima dalla denuncia alla sua riabilitazione; l’istituzione del reato di esercizio abusivo dell’attività finanziaria, che possa facilitare il riconoscimento del reato di usura, spesso molto difficile da dimostrare.

La storia di Emanuela Alajmo, presidente del Coordinamento vittime mafia, estorsione usura di Palermo, è esemplare: “Per salvare l’attività di mia madre, a cui aveva lavorato per 70 anni, ho deciso di accettare l’aiuto ‘spontaneo’ di una persona molto vicina alla mia famiglia – racconta –. Io non ero certo una stupida, ma questi soggetti hanno un’enorme capacità di circuire le persone in difficoltà, e riescono a metterti nella condizione di dover accettare le loro condizioni: alla fine, lavoravamo solo per dare a lui tutto il frutto del nostro lavoro”. Emanuela ha portato questa croce per quasi sei anni: “Ormai mi aveva tolto la dignità, e avevo distrutto i rapporti con famiglia e la collettività, soprattutto perché provavo vergogna. Finché un giorno ho deciso di alzare la testa – continua – Da allora sono cominciate le minacce e le intimidazioni, ed è lì che ho deciso di denunciare e di farlo prendere in flagranza di reato”. Un altro calvario, però, era alle porte: “Quell’uomo aveva usurato 116 persone, di cui 12 che si sono poi accodate alla mia denuncia. Ma dimostrare in aula di tribunale il tasso di usura praticato spesso risulta quasi impossibile” spiega Emanuela. Il finale è amaro: “L’usuraio è stato condannato a 7 anni 8 mesi in primo grado, si è appellato ed è stato assolto perché il fatto non sussiste. Il processo è iniziato nel 2000, e oggi sono ancora in appello. E’ triste come il potere del denaro riesca a vincere le coscienze, e ad annullare una tale evidenza. E ti crolla il mondo”.

Una storia fin troppo comune, che per le associazioni anti-usura deve finire. “Ancora oggi provo un senso di colpa, soprattutto verso i miei famigliari – spiega la donna, nonostante tutto instancabile nella sua attività di testimonianza, aiuto e prevenzione –  Per questo non forzo le persone a denunciare, almeno finché la situazione non cambia: perché so cosa ho vissuto e cosa continuo a vivere. Ma posso aiutare altri a non commettere lo stesso errore”.

Anna Toro

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