Libia: è braccio di ferro con il popolo

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Ottantaquattro morti in 3 giorni. Internet interrotto e linee telefoniche che vanno a singhiozzo. Giornalisti impossibilitati a entrare nel Paese e chi c’è obbligato a tacere. È caos in Libia, ma il regime del colonnello Muammar Gheddafi preferisce non mostrare al mondo la carneficina in corso. La denuncia delle violenze in corso arriva da Human Rights Watch, l’organizzazione non governativa che si occupa della difesa dei diritti umani.

“Un massacro. Non ne abbiamo mai visti così prima. È orribile”. È così che il medico Wuwufaq al-Zuwai racconta da un ospedale nella parte Est di Bengasi, alla Tv satellitare Al-Jazeera, quello che sta accadendo. La scena descritta è da far rabbrividire: “ho visto con i miei occhi 70 corpi senza vita entrare nell’ospedale”. I feriti, oramai, non si contano più. Dall’ospedale sono partiti appelli affinché la popolazione accorra a donare sangue per poter salvare vite umane.

A far partire gli scontri a fuoco, sarebbe stata la presenza, venerdì sera, del figlio di Gheddafi, Saad, all’interno dell’hotel “Uzu” di Bengasi. Era stato mandato dal padre per cercare di calmare gli animi. Ma nel discorso ai cittadini tenutosi mercoledì sera, nel quale aveva promesso riforme, il popolo aveva visto solo accondiscendenza verso il sistema piuttosto comprensione dei problemi. La voce della presenza all’interno dell’hotel si sparge velocemente. I residenti della zona circondano l’edificio per catturarlo. Ma Saad è più veloce e riesce a fuggire.

Il regime, stando al quotidiano “Libya El Yom” invia 1500 uomini dell’Esercito, comandati dal genero del leader libico, Abdullah Senoussi, a prelevare il figlio per riportarlo a Tripoli. Ma la situazione durante la notte degenera. Le forze di sicurezza sparano munizioni vere, i manifestanti lanciano sassi. Cercano di difendersi dall’aggressione della Polizia appiccando incendi. Ma non riescono ad evitare il massacro. La Libia è in fiamme. Oltre a Bengasi, morti e feriti si registrano anche in altre città come Baida, Ajdabiya, Zawiya e Derna.

Oggi, durante i funerali a Bengasi, seconda città più grande del Paese, delle vittime di venerdì, le forze di sicurezza sono tornate a sparare sulla folla, uccidendo altri manifestanti. Ma il popolo è deciso ad andare avanti. Un residente di Bengasi, che non ha voluto essere citato, ha detto che “è tardi per il dialogo. Troppo sangue è stato versato per tornare indietro. Più brutale sarà la repressione, più determinati saranno i manifestanti”. Altri scontri si sono registrati di fronte al Tribunale della seconda città libica, dove i manifestanti avevano montato tende per accamparsi e farla diventare la “Tharir Square” della Libia.

Sul web, intanto, attraverso Twitter, si susseguono gli appelli alla ricerca di cittadini madre lingua araba con buon inglese che possano parlare al telefono e tradurre quello che racconta chi è nel Paese.

Quarantuno anni di potere non bastano a Gheddafi per abbandonare il timone e raggiungere, in esilio, i colleghi Ben Alì e Mubarak. Vuole il braccio di ferro con il popolo, proprio come lo hanno voluto i suoi colleghi di Tunisia ed Egitto, prima di ritrovarsi assediati e costretti alla fuga ingloriosa. Chissà se anche a lui toccherà la stessa fine.

Andrea Bernardi

(inviato di Unimondo)

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