Amnesty: Myanmar a un anno dal massacro ancora repressione

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Il 30 maggio 2003 in alcune località del nord del Myanmar gruppi di miliziani appartenenti a associazioni filo-governative scatenarono una serie di violenti attacchi contro la folla riunita ad ascoltare un discorso della leader dell'opposizione Aung San Suu Kyi.

Il risultato di questi attacchi furono, secondo fonti attendibili, almeno 80 morti e diverse centinaia di feriti; le forze dell'ordine, che non erano intervenute per fermare questi attacchi, misero in atto nelle ore e nei giorni successivi centinaia di arresti di militanti dell'opposizione, accusati di avere provocato con discorsi sediziosi la reazione dei cittadini favorevoli al governo. Non vi sono notizie di arresti nei confronti degli assalitori.

Aung San Suu Kyi, insieme a tutta la leadership del suo partito, la Lega Nazionale per la Democrazia, venne arrestata.

In questi ultimi dodici mesi molte cose sono cambiate in Myanmar: in agosto il generale Khin Nyunt, già a capo dei famigerati Servizi Segreti Militari, è diventato primo ministro, ed ha annunciato una "road map" che dovrà portare il paese ad una "reale e duratura democrazia". È stata di nuovo convocata, dopo nove anni, la Convenzione Nazionale con il compito di preparare una proposta per la nuova Costituzione del paese.

"In realtà questo cammino verso la democrazia non sta affatto iniziando" commenta Paolo Pobbiati, coordinatore per il Myanmar di Amnesty Italia "la repressione non si è per nulla allentata: i prigionieri per motivi politici sono circa 1300, per la maggior parte prigionieri di opinione, e molte delle persone che furono arrestate un anno fa si trovano ancora in carcere".

Anche Aung San Suu Kyi, Premio Nobel per la pace nel 1991, si trova tuttora agli arresti domiciliari, condizione nella quale ha trascorso ben otto degli ultimi 15 anni. Ancora meno fortunati di lei sono altri oppositori del regime che si trovano nelle prigioni del paese; alcuni di loro sono stati condannati a pesanti pene detentive, anche superiori ai 50 anni, per le loro attività politiche pacifiche e non violente.

"Anche la Convenzione Nazionale rischia di trasformarsi nell'ennesima farsa di questo regime" osserva Pobbiati "a parte le personalità politiche di primo piano, come Aung San Suu Kyi, cui è di fatto impedita la partecipazione, molti dei suoi componenti sono soggetti a continue minacce ed intimidazioni e si trovano in costante rischio di venire arrestati nel caso si discostino troppo dalle 'linee guida' dettate dai militari".

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