Una tragedia che ci ha fatto crescere?

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“A Longarone, Erto , Casso e Castelavazzo il tempo non si misura in prima o dopo Cristo, ma in prima e dopo il Vajont” Questa triste constatazione passa ancora oggi di bocca in bocca: e i sopravvissuti non riescono a pensarla diversamente. Il tempo si è fermato lì, il 9 ottobre 1963. Immobile, incombente, proprio come la diga che ancora si erge a monito perenne sopra la valle del Piave.

Eccoci a 50 anni esatti dal Vajont: non serve più specificare che un tempo si trattava del nome di un torrente, di una valle, di una diga. No, da quel giorno basta dire la parola: Vajont. Subito si pensa a una delle più grandi tragedie causate dall’uomo che hanno colpito l’Italia, l’Europa, il mondo, almeno dal dopo guerra in poi.

Non si può dire che manchi la memoria del disastro. Ci sono però voluti il monologo di Paolini e i racconti al tepore del focolare di Mauro Corona a riportare alla luce una pagina nera, diventata emblema della burocrazia e dell’irresponsabilità purtroppo tipiche del nostro Paese, ma pure di quel desiderio dell’uomo di sfruttare la natura con avidità e senza scrupoli.

Per un geologo il Vajont resta una incredibile concatenazione di errori, ancora per certi versi inspiegabile. La ricostruzione storica ha appurato l’esistenza di un vero e proprio piano delinquenziale fatto di manomissioni di documenti, falsità e cifre truccate solo per mantenere in piedi “l’affare”: ma perché, quando ancora si poteva evitare la sciagura, la popolazione non fu allertata?

Tra le varie iniziative per commemorare il cinquantesimo anniversario mi preme segnalare un grande incontro di geologi venuti da tutto il mondo per la “Conferenza internazionale Vajont 2013”.

Qualcuno potrebbe dire: “Cosa sono venuti a fare a Longarone quelli che da molti sono indicati fra i maggiori responsabili della tragedia?” A questa domanda legittima risponde il presidente del Consiglio Nazionale del Geologi Gian Vito Graziano intervenuto al convegno. La geologia ha commesso errori "nella fase dello studio preliminare della progettazione dell'opera, se solo si pensa al fatto che la diga non avrebbe dovuto essere costruita dove è stata costruita, li ha commessi nella fase della costruzione, li ha commessi, forse ancor di più, nella fase dei controlli. Non nascondiamo queste responsabilità, non ci sottraiamo a queste responsabilità". "Tuttavia ci fu chi, scienziato illuminato, capì in tempo e allertò, ma allertò chi non volle sentire. Non siamo stati soli infatti nell'incredibile susseguirsi di errori che portarono alla catastrofe - ma in compagnia di ingegneri e tecnici che sbagliarono modelli, che non seppero capire e soprattutto che non ebbero la forza ed il coraggio di fermare tutto quando era ancora possibile".

Bisogna ricordare, ricordare, ricordare. Non si possono dimenticare le vittime, la superficialità, gli errori commessi e la logica, incurante dei limiti invalicabili della natura, che mosse la grande opera della diga del Vajont. La memoria deve essere un grido dentro ognuno di noi, un grido per la giustizia, la coscienza, il rispetto e la verità. Quello che accadde il 9 ottobre 1963 uccise oltre 2mila persone e distrusse una vallata, questo non può essere dimenticato.

Qualcosa è cambiato dopo il Vajont? Qualcosa è cambiato dopo Stava (una tragedia simile avvenuta in Trentino nel 1985)? Sicuramente la professionalità dei geologi è cresciuta. Oggi però ci vuole una svolta etica e politica che cominci dalla coscienza di ciascuno. Occorre riscoprire dentro di sé la necessità di anteporre il bene comune agli interessi di parte, sapendo che dalla propria onestà dipende la vita delle persone. Se vacilla la terra sotto i nostri piedi, su che fondamento potremmo costruire una società migliore?

A livello generale la coscienza civica impone la valorizzazione dei beni comuni, a cominciare dal paesaggio e dal territorio, ora troppe volte sfregiato. Per l’Italia c’è la concreta possibilità di un “New Deal” che metta al centro dei prossimi 10 anni alcune priorità: reale mappatura del rischio idrogeologico, realizzazione di opere pubbliche per mettere in sicurezza del territorio, cura del paesaggio, approvazione di una nuova legislazione ambientale. Così si potrebbe rimettere in moto un’economia ora ferma, senza doverla legare per forza alla speculazione edilizia. Dobbiamo restituire ai nostri figli il bene prezioso del paesaggio che abbiamo ereditato dalla saggezza dei nostri nonni e da quell’armonia naturale per cui l’Italia veniva esaltata fin dall’antichità come Saturnia Tellus.

Nicola Dalla Torre

Fonte: cittanuova.it

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